Tutta la mancata deontologia giornalistica dei media italiani parlando della guerra in Ucraina

Non si tratta di contestare linee editoriali o gerarchia delle fonti utilizzate per raccontare quel che sta avvenendo. Ma di regole che fanno parte dei doveri del giornalista che sono state dimenticate

22/05/2022 di Enzo Boldi

Piccolo spoiler prima di iniziare. In questo articolo non parleremo principalmente dei talk show che sono dei contenitori di informazione che, per definizione, sono realizzati per creare dibattito. Ci concentreremo, segnatamente, sull’intero comparto dei media italiani, con particolare attenzione a quel che accade all’interno di telegiornali e giornali (sia cartacei che online). E lo faremo puntando su un unico aspetto: quello dei fatti e della deontologia giornalista mancante (in alcuni casi) nella narrazione di quel che dall’alba del 24 febbraio sta accadendo nella guerra in Ucraina, con l’invasione russa e il tremendo, sanguinoso e sanguinario conflitto che ha mietuto e sta continuando a mietere migliaia di vittime tra i civili innocenti. Con un aggressore, la Russia, e un aggredito, l’Ucraina.

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Una premessa doverosa per porre l’accento sulla narrazione giornalistica diventata predominante (come lo è stato per la pandemia da Covid-19) e che inevitabilmente va a colpire il fruitore (il cittadino nel suo ruolo di telespettatore o lettore) nella sua posizione passiva di ricevitore delle informazioni. Ed è qui che entra in ballo quella serie di regole – scritte su carte e regolamenti che ogni singolo giornalista che fa questo mestiere è tenuto a seguire – che rispondono al nome di “deontologia“. Nel corso della narrazione giornalistica della guerra in Ucraina, ci siamo trovati in più occasioni a contestare il modus operandi di alcuni media che si occupano di informazioni.

Guerra in Ucraina e la deontologia giornalistica mancata

Ci sono stati degli errori paradossali e marchiani – come la messa in onda in tre trasmissioni di altrettante emittenti differenti (Porta a Porta, ControCorrente e PiazzaPulita), con il solo programma di Formigli che ha chiesto scusa il giorno dopo, di una grafica che voleva mostrare gli interni dell’acciaieria Azovstal di Mariupol e che in realtà era la scheda di un gioco di ruolo – figli di una professione che utilizza come fonti primarie i social network e che (anche per la classica “corsa contro gli altri”, vero pugnale che uccide quotidianamente il giornalismo) prende per buone informazioni senza prima verificarle.

Un vizio diventato quasi atavico che porta a errori che non dovrebbero essere commessi da chi ha un ruolo ben preciso all’interno del tessuto sociale: quello di diffondere informazioni. Per fortuna, in alcuni casi sono arrivate le scuse. Non solo da parte di PiazzaPulita per il caso della grafica fake, ma anche da Avvenire che aveva pubblicato l’immagine di bambini che imbracciavano un fucile mentre mangiavano un lecca-lecca. Un’immagine che mescolava in un solo scatto l’età puerile dei piccoli (e quindi la loro innocenza intonsa) e quel concetto di guerra che dovrebbe essere il più distante possibile dai bambini. E anche in questo caso entra in ballo la deontologia, con i doveri di un giornalista violati. Fortunatamente corretti.

Le narrazioni sbagliate

Ma c’è chi non ha chiesto scusa ed è andato avanti come se nulla fosse. Citiamo, per esempio, il caso di un talk-show in diretta ogni mattina sulla televisione pubblica: Agorà. Qualche settimana fa, a pochi giorni dall’inizio della Guerra in Ucraina, la trasmissione in onda su RaiTre ha mandato in onda questo grafico.

Non si tratta di un giudizio di merito, ma di metodo. Il tema è molto delicato e riguarda un sondaggio di opinione pubblica sull’invio di armi all’Ucraina. E quel grafico mandato in onda riporta dati corretti, ma distribuiti sulla “torta” in modo sbagliato: graficamente, infatti, la fetta di chi diceva no all’invio di armi è inferiore alla somma delle due costituite da chi si diceva favorevole e chi non si era espresso. Peccato che i contrari fossero il 55%, mentre la somma degli altri due rappresentava il 45%. Certo, il dato finale era corretto. Ma chi si è limitato a guardare lo schermo e ha dato solamente una rapida occhiata a quanto veniva mandato in onda, ha avuto la percezione diversa rispetto al risultato. E i grafici a torta vengono utilizzati proprio per dare un immediato riscontro visivo. In questo caso errato.

Le fonti

Altro capitolo deve essere dedicato alla gerarchia delle fonti. La guerra in Ucraina è anche una guerra di propaganda. Da ambo le parti, come sempre accaduto in ogni conflitto. Ovviamente la Russia – non avendo una stampa libera – rilascia informazioni che devono essere sempre prese con le classiche “pinse” e che spesso e volentieri non sono veritiere. Ma i media italiani da dove prendono spunti per i loro articoli? Se i canali ufficiali di Stato non possono essere affidabili, molti quotidiani si sono rivolti direttamente ai social network. Come nel caso del presunto cancro di Putin e di una presunta imminente operazione. Abbiamo parlato di questo caso – come analisi critica massmediologica – all’inizio di maggio, quando molti giornali online (anche importanti) hanno deciso di dare con fermezza quella che è una notizia non confermata. La loro fonte? Un «misterioso post su Telegram». Questa operazione è del tutto contraria ai principi deontologici della professione giornalistica. Prima di scrivere un articolo, infatti, è necessario effettuare tutti i controlli di rito e non attingere a piene mani da quel che circola sulle varie piattaforme online. E le fonti hanno una gerarchia che, ovviamente, non contempla tra quelle primarie (ideologicamente neanche nelle secondarie) le chat e i post sui social.

Le foto

La deontologia giornalista vale anche per le immagini. E sulla guerra in Ucraina, in molti casi, i paletti dei doveri dei cronisti (o delle redazioni che si occupano della pubblicazione) sono stati violati. Portiamo un esempio. Durante il primo mese della guerra in Ucraina, molti (praticamente tutti) i giornali italiani pubblicarono (nelle loro edizioni online) il video di un militare russo che si arrendeva davanti alle forze armate ucraine. Il giovane, in lacrime, aveva ricevuto tutto una bevanda calda e un pasto mentre gli ucraini gli avevano permesso di telefonare (dopo settimane di comunicazioni-zero) alla madre per dirgli che stava bene. Immagini condivise sui social da parte degli Ucraini e che i media italiani hanno ripreso. Ma potevano farlo? No, non stiamo parlando di copyright, ma della Terza Convenzione di Ginevra il cui articolo 13 spiega perché non si devono condividere immagini e (e nomi) di militari arrestati o che si sono arresi in un teatro di guerra: «I prigionieri di guerra devono essere trattati sempre con umanità. Ogni atto od omis­sione illecita da parte della Potenza detentrice che provochi la morte o metta grave­mente in pericolo la salute di un prigioniero di guerra in suo potere è proibito e sarà considerato come una infrazione grave della presente Convenzione. In particolare, nessun prigioniero di guerra potrà essere sottoposto ad una mutilazione corporale o ad un esperimento medico o scientifico di qualsiasi natura, che non sia giustificato dalla cura medica del prigioniero interessato e che non sia nel suo interesse. I prigionieri di guerra devono parimenti essere protetti in ogni tempo specialmente contro gli atti di violenza e d’intimidazione, contro gli insulti e la pubblica curiosità». Ma nulla di tutto questo è stato rispettato e il volto di quel giovane (nella maggior parte dei casi non oscurato, almeno come estrema ratio) è stato diffuso in lungo e in largo. Certo, era già sui social, ma i giornali non sono piattaforme social e chi lavora nelle redazioni deve sempre tenere a mente le regole della deontologia. Anche in questo caso, però, dimenticata.

Guerra in Ucraina e il capitolo mitizzazione

Ultimo, ma non per importanza, il tema della mitizzazione. Quella della Russia che racconta l’eroismo dei propri militari (per tentare di giustificare ciò che non hanno il coraggio di definire “guerra”) è nota a tutti. Mentre sulla sponda Ucraina si è caduti nell’eccessiva esposizione mediatica di storie e personaggi che, in realtà, si sono rivelate false. Ma i giornali italiani ci sono caduti con tutte le scarpe e hanno dedicato pagine e pagine a queste vicende. Due esempi: la famosa storia della “resistenza” sull’Isola dei Serpenti, quella dell’ex Miss Ucraina che ha imbracciato il fucile per difendere il suo Paese (ma in realtà è solo un’appassionata di soft-air che non è “scesa in guerra“). Storie che non esistono, ma che sono diventate oggetto di articoli sui quotidiani con i classici titoli clickbait.

Questa è una breve (perché quotidianamente vengono ripotate informazioni parziali e non corrette, e poi non smentite) dai vari organi di informazione italiane. Senza rispettare le regole della deontologia, quei doveri da inseguire come stella polare per redigere un articolo e renderlo fruibile al lettore. O realizzare un servizio per il Tg da dare in pasto al telespettatore. Inevitabilmente, questo comportamento porta a una visione non positiva – da parte del pubblico – del lavoro dei giornalisti. Ovviamente non tutti sbagliano. Molti colleghi (soprattutto quelli sul campo) svolgono in loro lavoro in modo ineccepibile. Ma la storia insegna che un solo piccolo errore vale più di mille cose fatte bene. Una sola piccola fake news (o la pubblicazione di una notizia non verificata) porta a macchiare e a cancellare, nella percezione, tutto il pregresso costruito secondo le regole. Per questo devono essere seguite, per non dare alibi e far crescere la credibilità agli occhi di tutti.

(foto IPP/zumapress/Maximilian Clarke)

 

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