Missili sull’ospedale di Gaza: il solito vizio di giornali e social

La corsa a dare una notizia, a costi di dare una non notizia. La corsa a dire la propria senza attendere conferme. Come già accaduto con il conflitto tra Russia e Ucraina, lo spartito non è cambiato neanche nelle narrazioni sul Medio Oriente

18/10/2023 di Enzo Boldi

L’immagine utilizzata per accompagnare questo articolo non fa riferimento a quel che è accaduto martedì sera all’ospedale battista Al-Ahli di Gaza City. Una scelta razionale per sottolineare come in queste ore (come già accaduto in passato, come nel conflitto Russia-Ucraina) sui social e sui giornali ci sia stata una rincorsa alla condivisione di notizie non verificate e che, per tempistiche ristrette, non potevano essere verificate. Video vecchi, fotografie fuori contesto e prese di posizione “viziate” da pre-concetti. Noi non sappiamo cosa sia realmente successo in quei tremendi istanti che lasceranno alla storia ricordi altrettanto tremendi. Non abbiamo la cosiddetta “scienza infusa” di sentenziare su chi tra i due “schieramenti” in guerra sia stato il responsabile di quell’attacco (o incidente) missilistico. Eppure molti altri, tra social e giornali, hanno partecipato (e lo stanno facendo anche ora) a questa corsa ad annunciare cose che non hanno alcuna ufficialità.

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Il caso dell’ospedale di Gaza si inserisce in un lungo elenco enciclopedico di come i giornali si siano iscritti a questa corsa acchiappa-click senza verificare fonti e senza attendere quel tempo necessario a comprendere se una notizia sia vera o falso. Ma anche a capire come siano andate realmente le cose. Fin dagli istanti successivi all’esplosione, moltissimi quotidiani online hanno iniziato a ribattere la notizia. Ovviamente, raccontare cosa sta accadendo è il compito principale della professione giornalistica, ma fornire ricostruzioni non confermate e (visto il contesto) di parte è un esercizio che poco ha a che vedere con questo mestiere.

Ospedale di Gaza, le narrazioni affrettate sui missili

E così, nel corse delle ore sono state fornite diverse versioni. Prima era colpa di un attacco israeliano su Gaza City, poi era colpa di Hamas e di uno o più missili fuori controllo che si sono abbattuti sull’ospedale. Ora, nel momento in cui stiamo scrivendo, la fase di stasi che potremmo sintetizzare così: “Ancora non è possibile attribuire le responsabilità di quel che è accaduto martedì sera”. Perché di fatto è così. In attesa di trovare conferme o smentite sull’attacco di Israele, conferme o smentite sull’errore di Hamas, occorre prendere tempo e non cercare di creare tensioni non necessarie tra due schieramenti già molto polarizzati nel dibattito.

Il ruolo dei social

Colpa dei social network? Sicuramente. Sia come “fonte di informazione” da cui attingono gli organi di informazione (comportamento sbagliato per definizione), sia come strumento per condividere proprie ricostruzioni. Era già accaduto in Ucraina, con il bombardamento dell’Ospedale di Mariupol. Prima colpa della Russia, poi “messinscena” ucraina. Alla fine, ma solo dopo accurate indagini (anche grazie al contributo di giornalisti indipendenti) si è arrivati a conoscere la verità: è stato un attacco mirato da parte dei militari inviati dal Cremlino. Una narrazione da montagne russe che non aiuta il lettore a capire di chi fidarsi. Per fare un esempio, ricordiamo la storia di Marianna Podgurskaya, la blogger immortalata in una delle immagini che hanno fatto la “storia” del conflitto nell’Est Europa: c’era chi l’accusava di essere un’attrice pagata da Kiev, c’era lei che “avrebbe confessato” di esser stata pagata per partecipare a un falso sull’attacco. C’è stata sempre lei che, qualche mese dopo, ha confermato di essere realmente all’interno dell’ospedale (in attesa di partorire) e di esser stata costretta dai russi a raccontare la versione sulla “messinscena” ucraina. Ci sono voluti mesi per avere una verità non più smentibile dalle correnti di pensiero.

L’infodemia: il caso della scuola ebraica evacuata a Roma

Torniamo all’informazione dei giornali online. Questa mattina, tutte le principali testate telematiche italiane hanno realizzato articoli (messi anche in primo piano e apertura) su un’evacuazione di una scuola ebraica di Roma (nel Ghetto di via Portico D’Ottavia) per un allarme bomba. Titoloni allarmistici che, in un periodo storico intriso di tensioni, non può che acuire le distanze tra le posizioni ideologiche già presenti su quel che accade in Medio Oriente da anni. E poi cosa è successo?

Niente. Non è successo niente. Si trattava di una esercitazione concordata. Nessun allarme bomba, ma un classico sistema che si è sempre ripetuto nelle scuole dove, almeno una volta all’anno, gli studenti vengono invitati a testare i protocolli di sicurezza (percorsi e non solo) in caso di emergenza. Eppure, i principali quotidiani italiani hanno rilanciato una non-notizia con toni allarmistici.

Ospedale di Gaza, in attesa delle indagini

Questo e altri esempi. Chi fa informazione, ma anche chi le cerca, deve tenere a mente una stella polare: correre dietro ai rumors non può che svilire il vero lavoro giornalistico. Come nel caso di cui abbiamo parlato solo qualche giorno fa, con un noto quotidiano italiano che ha condiviso il video della “reazione” di Israele contro Hamas bombardando Gaza. Peccato che le immagini fossero quelle della festa dei tifosi di una squadra di Algeri dopo la vittoria dello scudetto.

Si chiama infodemia di guerra che va di pari passo con la fretta. La fretta di pubblicare una notizia, anche a costo di pubblicare una non notizia. Il caso dell’ospedale di Gaza ne è l’emblema più recente e la testimonianza di come non si debbano raccontare tragici eventi bellici. Parlare di ciò che sta accadendo è fin troppo ovvio. Farlo limitandosi alla descrizione dei fatti (in questo caso il paradigma doveva essere: missile sull’ospedale, numero di vittime accertate e basta) sembra essere un qualcosa di non più attuale. Noi rimaniamo in attesa di conoscere la verità e non le illazioni. E per farlo è necessario affidarsi alle inchieste che prima o poi verranno aperte, ma anche seguire le ricostruzioni di quei giornalisti indipendenti che non corrono a twittare una sorta di live footage, ma attendono di confrontare dati, versioni e fatti prima di indicare un possibile e presunto responsabile.

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