DCA sui social, perché diventano virali e cosa devono fare di più i social per cambiare questa situazione?

Per capire la complessità del veicolare un DCA tramite social abbiamo chiesto ad Aurora Caporossi, founder di Animenta, di raccontarci l'esperienza con la sua associazione

16/01/2023 di Redazione Giornalettismo

Partiamo da un presupposto fondamentale: i DCA sono estremamente complessi e hanno trovato, nei social network, un punto di atterraggio ideale per una serie di ragioni che – a partire dai casi di Waffler69 e Leila Kaouissi – abbiamo scelto di discutere con Aurora Caporossi, founder e presidente dell’associazione Animenta, e Giuseppe Magistrale, Psicologo Psicoterapeuta presso il Centro DCA di Bari che collabora con l’associazione. Perché i contenuti DCA sui social come quelli proposti da chi mangia enormi quantità di cibo spazzatura o cibo scaduto o come quelli di chi descrive ben oltre ciò che sarebbe opportuno fare – o comunque non nel modo corretto – il proprio disturbo alimentare sui social generano così tanta viralità, attenzione, interazione?

Cosa spinge gli utenti, sul piano psicologico, a seguire storie come queste e che effetto hanno su chi combatte contro un disturbo alimentare? E su chi non ha mai avuto contatti con questa realtà? Che ruolo hanno, infine, i social network nella diffusione e nella legittimizzazione di questi disturbi, e in che modo Instagram, TikTok, Pinterest e i social – al di là di ciò che è già stato fatto – dovrebbero procedere secondo chi con i DCA ci lavora tutti i giorni?

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Quel senso di «superiorità e distanza» da chi si ingozza

«Per il mukbang (tipologia di video a tema food nata in Corea del Sud che ha come protagonista una persona che mangia – o per meglio dire si ingozza – in streaming n.d.R.) ci sono tanti motivi possibili: può servire a diverse cose come il cercare di simulare un senso di “compagnia” mentre si mangia, ovvero la normale esperienza di condivisione a tavola. Per alcune persone suscita curiosità e stupore: quanto in là si spingerà? Per altri può essere un mezzo per sentire un senso di superiorità e di distanza da comportamenti considerati disgustosi o socialmente inappropriati e “godere” del vedere esseri umani che adottano comportamenti degradanti», spiega lo psicoterapeuta Giuseppe Magistrale ai microfoni di Giornalettismo commentanto l’enorme successo che i video del tiktoker Waffler69 hanno sempre avuto.

Parlando, invece, dei disturbi alimentari e prendendo come riferimento la storia di Leila Kaouissi – la diciottenne tiktoker che soffre di anoressia nervosa, bulimia e depressione – chi sceglie di seguire le narrazioni dei DCA può farlo volendo ottenere «una forma di alimentazione vicaria volta a sopprimere le sensazioni di fame – con l’effetto negativo di rischiare una ricaduta – o come modo costruttivo per ridurre la solitudine durante i pasti, per spingersi ad aumentare gradualmente l’apporto di cibo». Tanto dipende da come si usa il social e da come si percepisce uno stesso contenuto veicolato, quindi.

Perché le persone seguono chi racconta i suoi DCA?

Cosa spinge a seguire storie come quella di Leila e le storie di DCA sui social? «Per quanto riguarda Leila, credo che una figura esile in stato di difficoltà possa suscitare un senso di pericolo, di impotenza e attivare il bisogno di accudire in chi guarda – spiega lo psicologo -. Si tratta di meccanismi umani universali che però possono sortire effetti imprevedibili in chi soffre di disturbi alimentari, fino a risultare dei veri e propri meccanismi di mantenimento della malattia perché vanno a far leva sui cosiddetti vantaggi secondari ovvero i vantaggi interpersonali garantiti dai sintomi che sono però anche meccanismi di mantenimento degli stessi».

«Sicuramente da una parte – prosegue nell’analisi Aurora Caporossi – c’è la curiosità per quello che riguarda i DCA, l’attenzione per questi corpi che sono quasi completamente trasformati, quasi come se fossero qualcosa di completamente estraniato dalla realtà; c’è poi la necessità di aiutare e noi, come associazione, abbiamo ricevuto moltissime richieste di diffusione dei suoi contenuti per aiutarla. Il problema qual è? I DCA si nutrono tanto di visibilità, follower e like».

DCA sui social e la legittimazione che ottengono

«Fruire di questa tipologia di contenuto crea un effetto anche sugli altri – ci spiega Caporossi quando sottolineiamo come possa esserci una conseguenza non solo su coloro che ne sono affetti ma anche su coloro che non ne sono affetti -: “io non sono così malata, quindi non ho bisogno di curarmi, non sono degna delle cure”. Questo è un grandissimo problema che abbiamo registrato, i ragazzi ci chiedono – al netto del fatto che i DCA non sono richiesta di attenzione in termini di capriccio ma richiesta di attenzione in termini di riconoscimento -: “io per ricevere le cure devo essere così malato?”».

«Il problema del racconto dei disturbi alimentari è che si rischia di romanticizzarli, di creare una patina da serie tv e da reality show. Il caso di Leila ci ricorda quanto i DCA siano patologie che hanno bisogno di un concreto supporto psichiatrico ma, ovviamente, per avere supporto non dovremmo fare una denuncia social ma avere accesso adeguato e tempestivo alle cure. Ad oggi ci troviamo in una situazione molto complessa, con centri sparsi a macchia di Leopardo che ancora si basano troppo sull’indice di massa corporea: se è troppo basso, non posso prenderti. Non si tratta di un valore corretto e completo, come evidenziato da alcune ricerche scientifiche, perché lascia fuori alcuni parametri fondamentali». L’aspetto psicologico, ovviamente, se si considera che le persone manifestano segni di un disturbo come l’anoressia nervosa ben prima che tramite l’indice di massa corporea se ne possa disporre il ricovero secondo i criteri attuali.

Leila, in particolare, non riceve però solo supporto ma anche commenti estremamente cattivi: «Un DCA fa perdere la cognizione della realtà, io – personalmente – non ricordo neanche cosa ho vissuto. Spesso ti trovi a fare azioni di cui non ti rendi pienamente conto (in riferimento ai contenuti pubblicati da Leila n.d.R.)». «Il punto è come si raccontano i disturbi alimentari. Ai ragazzi che vengono da noi spieghiamo, rispetto ai social, che non è necessario postare e raccontare tutto: anche se non pubblico quella cosa, il mio disturbo e la mia malattia sono validi, esistono e posso chiedere aiuto a prescindere dal peso e dal numero di follower. Le foto con il sondino al naso possono essere percepire in maniera devastante: una ragazza una volta mi disse che aveva visto su un profilo la foto di una con il sondino e che da lì aveva capito che avrebbe potuto anche non mangiare più perché tanto poi ci sarebbe stata l’alimentazione artificiale», conclude la founder di Animenta.

«I social dovrebbero lavorare con associazioni e società scientifiche»

Il punto è lavorare su prevenzione e informazione le piattaforme social – che ancora hanno limite evidenti in questo senso – devono farlo affidandosi alla collaborazione con associazioni e professionisti: «Ovviamente è importante raccontarsi e fare divulgazione ma bisogna capire come, se no si rischia di romanticizzare o di portare all’emulazione». Sui social parliamo continuamente di cibo, forma, corpo: «Si tratta di un terreno fertile per l’insoddisfazione del proprio corpo – come sottolineano diverse inchieste giornalistiche – e in queste narrazioni le persone possono trovare il punto di volta della loro sofferenza».

Sui social si fa anche autodiagnosi e ci sono contenuti che pretendono aiutare le persone a farla, quando la sola cosa sensata sarebbe rivolgersi ai medici e ai professionisti. Cosa dovrebbero fare i social, considerato il modo in cui vengono sfruttati per parlare di DCA e di esperienze in prima persona di questi disturbi? «TikTok, Instagram, Pinterest: se scrivi disturbi alimentari non ti danno nulla ma è usando altre parole che si riesce ad aggirare questi limiti. Credo che la cosa importante da fare sia collaborare a stretto contatto con associazioni e società scientifiche per capire e analizzare anche tramite questionari agli utenti per capire come migliorare quei contenuti che vediamo».

«Serve un maggiore controllo che non intacchi la libertà di espressione: noi abbiamo delle linee guida, come associazione, su come parlare di certe cose. Serve fare dei corsi di aggiornamento anche solo per far capire perché è così dannoso parlare delle cose in un certo modo, non basta bannare. Fare divulgazione è fondamentale ma bisogna capire come, considerato che sui social i video di corpi e cibo vanno in trend e hanno una maggiore visualizzazione. Ed ecco che continuo a comunicarlo in quel modo, ma non esistono gli influencer dei disturbi alimentari», conclude Caporossi.

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