Il funzionamento del praticantato per diventare giornalisti e le sue distorsioni

La confusione dettata dai social network, soprattutto negli ultimi anni, ha portato molti utenti a credere che chiunque possa fare il giornalista. Invece, c'è un iter ben preciso che, però, non è esente da problemi e distorsioni

21/02/2023 di Gianmichele Laino

Se si stanno individuando nuove strade per ampliare la platea dei giornalisti in Italia, significa che – comunque la si pensi – qualcosa non sta funzionando nell’attuale sistema che disciplina l’accesso alla professione e che, come abbiamo detto più volte, risale al 1963. Sarebbe già una data molto in là per una qualsiasi legge che vada a disciplinare degli aspetti sociali, figuriamoci per una norma che riguarda un settore come il giornalismo, letteralmente stravolto dall’avvento del digitale. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti aveva deciso di allargare il praticantato anche a chi avesse svolto un lavoro giornalistico in progetti editoriali non registrati come testate e, quindi, anche nei vari social network. La marcia indietro è stata fatta proprio in virtù del fatto che questo settore – coperto da una legge dello Stato – non può essere auto-riformato dall’Ordine dei Giornalisti. Al di là dei toni e dei modi utilizzati per tentare di attuare questa modifica e al di là del fatto che questa modifica possa essere ritenuta più o meno adatta a innovare la professione cercando di mantenere alti standard, c’è sicuramente qualcosa che non va nel come si diventa giornalisti oggi.

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Come si diventa giornalisti professionisti

Oggi ci sono due strade per diventare giornalisti professionisti ed entrambe convergono in un unico punto. Quello, cioè, del superamento di un esame di Stato per l’idoneità professionale (attraverso una prova scritta e una prova orale, da sempre temutissime). La prima strada è quella di fare 18 mesi di praticantato giornalistico (retribuito allo stesso livello contrattuale di un redattore standard, secondo quelle che sono le regole del contratto nazionale di lavoro giornalistico) all’interno della redazione di una testata registrata. La seconda strada è quella di superare il biennio in una delle scuole di giornalismo riconosciute dall’Ordine, che operano all’interno di realtà universitarie private: costi molto elevati per la retta e quattro mesi di stage obbligatorio all’interno delle redazioni giornalistiche esterne.

Sono evidenti, in questo campo, i primi due problemi. Il primo è quello di una limitazione all’accesso alle scuole per ragioni meramente economiche, accompagnato dalla limitazione all’accesso perché i posti messi a bando – ogni due anni – sono estremamente limitati. Il secondo problema, che riguarda invece il praticantato all’interno delle redazioni, è che oggi sono davvero poche quelle realtà editoriali che consentono ai giovani giornalisti di formarsi, a fronte di uno stipendio da corrispondere agli stessi giovani giornalisti.

Come si diventa giornalisti pubblicisti

In molti, dunque, scelgono l’altra strada prevista in ogni caso dalla legge 69/1963: ovvero quella dell’iscrizione all’elenco dei pubblicisti. Per diventare pubblicista, occorre collaborare per almeno due anni – in maniera continuata e retribuita – con una o più testate, certificare questa collaborazione (attraverso gli estremi del pagamento e il lungo elenco di articoli che sono stati prodotti nel lasso di tempo della collaborazione stessa) e aspettare i lunghissimi tempi di deliberazione degli ordini regionali (in alcune regioni c’è persino un ulteriore passaggio, quello di un colloquio da sostenere prima del formale ingresso all’interno dell’albo dei pubblicisti).

Anche qui c’è un problema: sono troppe le realtà editoriali in Italia che offrono il tesserino come merce di scambio per il lavoro che i redattori svolgono al loro interno. Il risultato è che l’intera professione risulta svalutata da una prassi di questo tipo e che, quindi, spesso si preferisca avvalersi del lavoro di un praticante pubblicista a bassissimo costo e non di chi risulta già iscritto nell’elenco dei pubblicisti o dei professionisti.

L’auto-riforma dell’Ordine non avrebbe risolto i problemi che abbiamo sin qui analizzato, ma – se possibile – ne avrebbe creato altri, aggiungendo un ulteriore elemento di complessità alla reputazione della professione agli occhi dell’opinione pubblica. Normale che si debba intervenire a livello di legge e in maniera più strutturata. Possibilmente per cercare di sanare una anomalia tutta italiana: non solo quella di avere una visione corporativista della professione giornalistica, ma anche quella di avere ben due figure separate (sarebbero state di fatto tre se fosse passata l’auto-riforma) a presidiare lo stesso settore. La sensazione è che si punti sempre di più alla quantità degli iscritti per tenere in piedi economicamente un sistema che, da qualche anno a questa parte ormai, vacilla. Ma che la qualità del lavoro prodotto dagli stessi iscritti passi sempre in secondo piano.

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