I social media sono un rischio per l’umanità? Il report
Un documento pubblicato da un gruppo di biologi ed ecologisti sostiene che l'impatto dei social media potrebbe comportare seri rischi per l'umanità
28/06/2021 di Giorgia Giangrande
I social rischio per l’umanità: se n’è sentito parlare molto ultimamente, soprattutto in relazione al periodo pandemico e al conseguente passaggio di massa allo smart working. La differenza rispetto al solito è che questa volta a parlarne non sono gli scienziati sociali, i giornalisti o gli attivisti in materia, che di consueto sollevano preoccupazioni sul modo in cui i social network stiano influenzando la democrazia, la salute mentale e le relazioni interpersonali. A parlare è infatti un gruppo di ricercatori in discipline nuove sul campo: biologi ed ecologisti.
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Dalla biologia un paper sui social rischio per l’umanità
Diciassette ricercatori in discipline diverse dell’Università di Washington sono gli autori del paper dal titolo “Gestione del comportamento collettivo globale”, pubblicato nella rivista PNAS. Il documento sostiene che gli accademici dovrebbero trattare lo studio dell’impatto dei social media sulla società come una “disciplina di crisi”, cioè un campo in cui gli scienziati di diversi settori devono lavorare rapidamente per affrontare un problema sociale utente, al pari del trattamento che la biologia di conservazione riserva alla protezione delle specie in via d’estinzione o a quello che la ricerca climatica rivolge al tema del riscaldamento globale.
L’autore principale del documento si chiama Joe Bak-Coleman ed è un borsista post-dottorato dell’università nel settore “Center for an Informed Public”, il co-autore Carl Bergstrom è invece un professore di biologia presso la medesima Università. Ciò che i due autori richiedono è in sostanza un cambiamento di paradigma nel modo in cui gli scienziati studiano la tecnologia che usiamo ogni giorno.
Una chiamata all’azione
L’articolo sostiene che le aziende tecnologiche abbiano marciato sull’uso smodato dei social media attraverso la pandemia di coronavirus in corso. Prova di questo è l’incapacità di arginare l’infodemia di disinformazione, che ha ostacolato l’accettazione diffusa di mascherine e vaccini.
Gli autori avvertono che se lasciati incompresi e non controllati, potremmo vedere conseguenze indesiderate della nuova tecnologia che possono sfociare in fenomeni dalla risonanza molto più ampia, per citarne alcuni: manomissione delle elezioni, malattie, estremismo violento, carestia, razzismo e guerra. Si tratta di un grave avvertimento e di una chiamata all’azione da parte di una fascia insolitamente diversa di studiosi attraverso le discipline e la loro collaborazione è indice di quanto il quadro sia preoccupante.
E se il pericolo fosse il definirlo tale?
Che i social media siano un rischio per la psiche di chi li utilizza, per la protezione dei dati privati, per l’esposizione su larga scala dei propri contenuti, ce lo dicono in molti e i consumatori per primi lo constatano. Ma un documento di questo tipo, proveniente da una delle università più prestigiose al mondo, non può essere a sua volta causa di un allarmismo ancora più ampio?
I social media hanno il loro effetti collaterali negativi: il body shaming, il revenge porn, i leoni da tastiera che si sentono autorizzati a dar voce ai loro pensieri più assurdi. Sono solo alcuni degli esempi in grado di rendere l’idea di come uno strumento tecnologico possa comportare rischi molto gravi per la salute mentale di chi li subisce.
Ma da qui a parlare di un problema per l’umanità siamo ben distanti. Gli attacchi degli haters, il dissenso da parte di chi non condivide un pensiero, la critica all’aspetto fisico delle altre persone, sono episodi spiacevoli che sono sempre esistiti in ogni società che si definisca tale. Quelli che un tempo erano pettegolezzi di paese, adesso sono i commenti ad un post su Instagram. Quello che prima era un attacco su carta stampata, adesso è un post su Twitter.
Stiamo tentando di giustificare un fenomeno grave? No, stiamo contestualizzando la pericolosità a cui fa cenno l’articolo dei ricercatori dell’Università di Washington. Forse sarebbe il caso piuttosto di introdurre degli strumenti che tutelino di più gli utenti; forse sarebbe opportuno da parte dei gestori delle diverse piattaforme permettere una più immediata segnalazione di chi fa un uso improprio dei social media. Se visiono un commento oggettivamente offensivo, perché devo aver bisogno dell’appoggio di altre 50 persone per far sì che quel commento venga eliminato?
Una migliore legislazione e più efficaci politiche a tutela degli utenti sono due semplici azioni che potrebbero ridurre la pericolosità a cui fa cenno il paper, senza sfociare nella “disciplina di crisi”.