Big Tech e ambiente: come riconoscere quando è greenwashing?
Difficile muoversi nel mondo del greenwashing esercitato da brand e Big Tech. Come capire quando un'azienda sta provando a ripulirsi la reputazione?
17/02/2023 di Ilaria Roncone
Esiste una pratica, quella del greenwashing, che ha senso definire ecologismo di facciata. Partendo dalla definizione greenwashing, andiamo ad analizzare quei casi in cui le aziende che fanno parte delle cosiddette Big Tech hanno sfruttato questa strategia – o sono state accusate di farlo – per ripulirsi la reputazione quando si parla di attività inquinanti (dalla produzione di device a quella di servizi a livello globale). Si tratta di una tematica, quella del greenwashing e Big Tech o – a livello più ampio – brand rispetto alla quale anche gli italiani si fanno domande, come mostra il rapporto di Karma Metrix che abbiamo messo al centro del nostro approfondimento di oggi.
Tra i brand più cercati in relazione a tematiche relative alla sostenibilità troviamo – in fondo alla classifica – Google, Apple e Amazon che fanno parte delle Big Tech. Non è possibile sapere se questa classifica sia frutto della ricerca spontanea degli utenti che, scegliendo questi brand, vogliono assicurarsi che producano in maniera sostenibile oppure se si tratta di ricerche da correlarsi con campagne pubblicitarie o divulgative fatte dai brand stessi.
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Cos’è il greenwashing e in cosa consiste nel pratico?
Partiamo dalla definizione di greenwashing che è, a tutti gli effetti, una tecnica comunicativa o una tecnica di marketing che può essere messa in atto da aziende o istituzioni con un interesse preciso: apostrofare le proprie attività come ecosostenibili – andando ad intercettare la sensibilità di un numero sempre più alto di utenti e consumatori – evidenziando gli effetti positivi di alcune scelte e prese di posizione ma, nel contempo, omettendo l’impatti ambientale che altre procedura hanno (compresa l’esistenza stessa dell’impresa e l’azione che compie nel suo complesso con relative emissioni e consumo energetico).
Fare greenwashing vuol dire, in sostanza, andare a capitalizzare rispetto a quella crescente domanda di servizi, prodotti e comportamenti che abbiano un impatto ambientale quanto minore possibile. Utilizzare questa tecnica comporta mettere in atto azioni e progetti che, in realtà, non vogliono autenticamente ridurre l’impatto ambientale ma solo ripulire la reputazione del brand in questione, che appare agli occhi delle persone più sostenibile e quindi meritevole di fiducia.
Chi fa greenwashing? Una recente ricerca di InfluenceMap – che studia il modo in cui le aziende provano a influenzare le politiche ambientali dei governi – e del Guardian ha messo in evidenza come le aziende che hanno interessi nei combustibili fossili agiscano facendo greenwashing. E di come Google, per lungo tempo, lo abbia permesso guadagnandoci a sua volta. Marchi come ExxonMobil, Shell, Aramco, McKinsey e Goldman Sachs sono risultati essere tra i primi venti inserzionisti per termini come “net zero” (zero emissioni) o “energy transition” (transizione energetica). Delle prime 1600 pubblicità comparse, 1 su 5 risultava essere stata inserita da aziende con interessi nel fossile. Aziende che, ora, non agiscono più negando il cambiamento climatico ma provando a influenzare il dibattito sulla decarbonizzazione a proprio favore.
Si tratta di un tipo di greenwashing diventato orami – come definito da Johnny White, avvocato dell’organizzazione benefica per l’ambiente ClientEarth, parlando con il Guardian – «endemico: per debellarlo dobbiamo legiferare divieti su tutte le pubblicità di combustibili fossili, proprio come è successo con il tabacco». E Google? Considerate evidenze di questo tipo, il colosso ha introdotto – a fine 2021 – una policy che vieta gli annunci pubblicitari in cui si nega il cambiamento climatico.
Greenwashing e Big Tech: che legame c’è?
Nel 2021, in previsione di COP26 – conferenza delle Nazioni Unite il cui scopo era quello di arrestare i disastrosi effetti del cambiamento globale impegnandosi a garantire politiche a emissioni zero entro metà secolo – le principali aziende tecnologiche hanno fatto sì di evidenziare, nelle settimane precedenti all’evento, tutto il loro impegno per salvare il pianeta. Un’azione che, con gli occhi del mondo puntati addosso, ha sollevato parecchie critiche.
Cosa è successo? Apple ha annunciato il lancio di dieci nuovi progetti ambientali e che i suoi 175 fornitori sarebbero passati all’utilizzo di energia rinnovabile; inoltre è emerso l’obiettivo, entro il 2030, di rendere ogni prodotto venduto dall’azienda zero impact. La mela ha anche fatto notare di aver ridotto – nei cinque anni precedenti – le sue emissioni del 40%. Google, dal canto suo, ha promesso emissioni zero entro il 2030 in tutte le sue operazioni richiamando, contestualmente, i suoi partner a ridurre le proprie emissioni. Al contempo – prima di COP26 – ha evidenziato presso i consumatori quanto i suoi prodotti fossero sostenibili.
Non è mancata all’appello neanche Microsoft, con la promessa di diventare carbon negative (arrivando a una rimozione permanente della CO2 nel suo ecosistema) entro il 2030 e di rimuovere tutto il carbonio che ha emesso nell’atmosfera entro il 2050. Anche Amazon ha annunciato il suo programma di investimento a favore del clima di 2 miliardi di dollari selezionando tre startup a basse emissioni di carbonio per la propria filiera.
Come capire se queste azioni sono frutto di uno sforzo legittimo e genuino delle Big Tech – che vogliono rimediare alle emissioni enormi che comporta la loro stessa esistenza – o di puro greenwashing?
Come distinguiamo ciò che è greenwashing da ciò che non lo è?
La dichiarazione di questo o di quell’altro brand è reale o è ecologismo di facciata? I consumatori devono prestare la massima attenzione quando si interfacciano con questo tipo di affermazioni o vedono campagne social e pubblicitarie. Ci sono moltissimi modi per produrre in maniera green: scegliere tecnologie idricamente e energeticamente efficienti, preferire carburanti meno impattanti nella logistica, prestare attenzione al materiale degli imballaggi.
Il greenwashing si individua, in parole povere, facendosi e facendo domande. Non basta ricevere le informazioni acriticamente, bisogna entrare più in profondità rispetto a quanto viene comunicato. Oltre a questo, esistono una serie di certificazioni che attestano la bontà delle informazioni diffuse tra gli utenti. Tra queste troviamo Uni En Iso 14024 (etichetta ambientale di tipo I), Uni En Iso 14021 (etichetta ambientale di tipo II), Uni En Iso 14025 (etichetta ambientale di tipo III) e il marchio europeo Ecolabel che promuove l’economia circolare.