È stata veramente “colpa” del debunking?

Ancora non si conoscono i dettagli di quanto accaduto a Giovanna Pedretti, le indagini sono state appena avviate. Sui social si punta l'indice contro chi non si è fermato alla viralità

15/01/2024 di Enzo Boldi

Mentre le indagini sono state appena aperte dalla Procura di Lodi ed è stata disposta l’autopsia sul corpo di Giovanna Pedretti, sui social è stato già puntato il dito su chi avrebbe (il condizionale è d’obbligo) portato la donna a prendere la più irreversibile delle decisioni. Colpa del debunking, di chi non si è fermato alla storia acchiappa-click e ha analizzato a fondo una vicenda per arrivare alla vera verità. Da quella recensione su Google condivisa sulla pagina Facebook, infatti, gli ultimi giorni dell’informazione italiana ha iniziato a viaggiare su due binari: paralleli, ma in direzione completamente opposte. Da una parte chi ha la responsabilità deontologica di aver dato una vasta eco mediatica a una vicenda “social”, senza verificarne la veridicità; dall’altra chi ha riscontrato grandi incongruenze in quella notizia che non doveva essere una notizia.

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Nella giornata di oggi, come spiegato nel nostro articolo di apertura, Giornalettismo sta analizzando e raccontato tutti i contorni massmediologici di questa storia partita da quella recensione (probabilmente) falsa e da quella risposta pubblicata sulla pagina Facebook della pizzeria “Le Vignole” di Sant’Angelo Lodigiano. Abbiamo dedicato un approfondimento al ruolo della stampa (cartacea e digitale), che ha dato ampio risalto a questa vicenda senza alcuna verifica preventiva. Perché, di fatto, si è parlato di tutto ciò solo perché la storia è stata ripresa da tutti i principali organi di “informazione” italiani. Ed è da lì che è scaturito il lavoro di debunking.

Giovanna Pedretti, la storia e le colpe del debunking

Da Lorenzo Biagiarelli a Selvaggia Lucarelli, passando per l’inviato del Tg3 Jari Pilati. Ma anche molti altri utenti social avevano evidenziato incongruenze e perplessità su quello screenshot. Poi la notizia, arrivata nella tarda serata di domenica 14 gennaio, della morte di Giovanna Pedretti, titolare di quella pizzeria di Sant’Angelo Lodigiano. Le cause ancora non sono state individuate e ufficializzate dagli inquirenti, ma sui social è partita la caccia al debunker: è colpa di chi ha lavorato per capire se quella storia fosse vera o falsa. Ovviamente, però, vanno sottolineati degli eccessi: impossibile non sottolineare come quella frase andata in onda durante il servizio del Tg3 del 13 gennaio «Guardami negli occhi» sia stata troppo inquisitoria rispetto alla non pericolosità del caso.

Il cortocircuito

Un cortocircuito sintomo di quel che è diventato il nostro Paese. Ma è veramente colpa di chi ha cercato di unire i punti ed evidenziare – soprattutto – come i nostri media informativi si lascino troppo spesso trascinare dalle onde emotive, dalla viralità social, nel scegliere cosa rispetti i criteri di notiziabilità? La risposta è, ovviamente, no. Partiamo dall’inizio: l’attività di debunking nasce proprio a causa dell’atteggiamento lassista dell’informazione. Da chi non è in grado di replicare a un politico che, in un’intervista, racconta fake news e fa disinformazione, a chi sceglie titoli allarmistici o sensazionalistici per raccontare una vicenda. Fino a chi racconta il falso, solo per ottenere un pugno di like e visualizzazioni. Poi c’è il giornalismo che vuole colpire il cuore della gente, quello delle storie strappalacrime. Un tempo era il “lato buono” dell’informazione, oggi si è tradotto nell’esigenza di scandagliare i social per cercare una vicenda in grado di suscitare un’emozione positiva nel lettore. Tutto molto bello, a patto che ciò che si racconta sia vero.

E, invece, ormai la dinamica è sempre la stessa: prima si pubblica una “notizia”, poi si controlla se è vera o verosimile. Spesso, questa seconda attività (che dovrebbe essere, seguendo i princìpi deontologici della professione giornalistica, la prima) scatta solo se qualcuno di esterno fa notare l’incongruenza. Ed ecco che la frittata è fatta e deve entrare in azione l’attività di debunking. Ovvero, smontare false narrazioni. Dunque, una risposta al declino – sempre più inesorabile – dell’informazione. Non solo nel nostro Paese, ovviamente.

E nella vicenda, purtroppo con un finale tragico, di Giovanna Pedretti c’è tutto questo. Una non-notizia trasformata in notizia. Utenti social, più o meno noti, che mettono insieme le carte e scoprono che quella storia è figlia di un grossolano falso. Ma per chi ha sempre il dito pronto sul telefono e scorre compulsivamente tra feed e bacheche, la colpa è di chi ha smentito una storia non vera. Ovviamente, tutto dovrebbe esser sempre fatto con i toni giusti, perché ogni singolo essere umano ha delle fragilità nascoste. Dunque, la “pena” dovrebbe essere commisurata al “danno”. E una recensione, probabilmente falsa, dovrebbe essere una vicenda consumata nel giro di qualche ore. E se il giornalismo avesse seguito le sue regole deontologiche, questa vicenda non sarebbe mai diventata di dominio pubblico. Anzi, sarebbe rimasta come uno screenshot pubblicato su una pagina Facebook.

Il giornalismo partecipativo

Al netto di un principio di causalità che dovrà essere confermato (o smentito), questa storia dal tragico epilogo deve spingerci in una riflessione ancor più profonda. Da anni si parla di citizen journalist, il giornalismo partecipativo. Una dinamica che – esattamente come sostiene Elon Musk – vede i cittadini coinvolti in prima persona nel racconto di notizie, in modo da poter allargare il raggio d’azione dell’informazione e fornire quelle “notizie” dal basso, da quei luoghi troppo spesso inesplorati dal mondo del giornalismo. E quel che è successo in questa vicenda è esattamente questo. Per esempio, Lorenzo Biagiarelli ha agito contattando in prima persona la titolare di quella pizzeria per chiedere delucidazioni a tutti quei dubbi sollevati. Le persone lo stanno attaccando (prendendosela anche con la sua compagna, Selvaggia Lucarelli) per aver gettato la donna in una gogna mediatica. Siamo sicuri sia andata così? Nella gerarchia delle responsabilità, in testa c’è sempre il giornalismo che ha sbagliato – come ormai accade troppo spesso – fin dall’inizio di questa vicenda.

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