La commissaria Agcom Giomi sull’equo compenso: «Google e Meta potrebbero non ritenere conveniente utilizzare i contenuti giornalistici»

Le parole nell'intervista rilasciata in esclusiva a Giornalettismo. La prospettiva di un possibile sviluppo del regolamento: gli utenti potrebbero addirittura non trovare più notizie a partire dai motori di ricerca, nel caso in cui Google rifiutasse di utilizzare contenuti giornalistici

24/01/2023 di Redazione Giornalettismo

Il regolamento sull’equo compenso per gli editori che è venuto fuori dopo mesi di lavoro in seno ad Agcom non ha trovato l’unanimità da parte di tutti i consiglieri dell’autorità. Elisa Giomi, infatti, ha espresso parere contrario e, in questo scambio con Giornalettismo, ha riportato la sua visione del problema. Partendo, innanzitutto, dal rapporto che Agcom ha avuto con gli editori e dalle varie sensibilità riscontrate. Nei mesi estivi, l’autorità ha chiesto un parere agli operatori del settore, affinché potessero esprimere le proprie opinioni in merito a una bozza di regolamento che era stata inizialmente condivisa. «La mia valutazione è che Agcom sia stata molto sensibile alle istanze degli editori, ma in quanto autorità indipendente non ha il compito di recepire le esigenze di una sola parte, bensì di perseguire l’interesse pubblico, che nel caso specifico consiste nel facilitare la negoziazione tra le parti – ha detto a Giornalettismo la commissaria Giomi -. Quando il compenso deve essere equo per legge, vuol dire che deve soddisfare gli interessi del venditore e acquirente, quindi al contempo degli editori e delle piattaforme. Credo che fino ad ora sia prevalsa una narrazione “manichea”, in cui l’editoria è sempre sinonimo di giornalismo di qualità e le piattaforme di disinformazione. È una semplificazione del tutto fuorviante, che mette in ombra il ruolo vitale delle piattaforme per l’editoria ma anche per noi utenti, che le utilizziamo quotidianamente per accedere all’informazione».

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La commissaria Agcom Elisa Giomi sull’equo compenso per gli editori

C’è però un tema cruciale che va analizzato, al di là dei rapporti di interlocuzione tra l’autorità e il mondo dell’editoria. Quanto l’Agcom ha avuto libertà di movimento, dal momento che si è comunque mossa all’interno del solco di una direttiva europea in materia, e quanta aderenza c’è tra la richiesta di un equo compenso per gli editori elargito dai grandi colossi del web e i ruoli dell’autorità garante delle comunicazioni? «Questa è una domanda molto importante – spiega Giomi -. La libertà di movimento dell’Autorità è stata ampia. La direttiva prevede il diritto degli editori a contrattare per le pubblicazioni giornalistiche diffuse dalle piattaforme, che non significa introdurre misure che di fatto possano rivelarsi una forma di trasferimento, a loro favore, di una quota dei ricavi delle piattaforme. Questo invece è quanto fa il regolamento, individuando la differenza tra ricavi pubblicitari delle piattaforme e degli editori quale  base di calcolo dell’equo compenso. È il frutto di un’interpretazione della direttiva che le attribuisce l’intento di colmare il “value gap”, cioè la differenza tra introiti delle piattaforme e degli editori. Ma, tecnicamente,  il “value gap” non è un concetto giuridico, né una giustificazione economica e infatti non ve ne è menzione nella direttiva e neanche nella legge italiana di recepimento. Da qui derivano le potenziali distorsioni del regolamento, che paradossalmente potrebbe tradursi in un “compenso zero” per l’uso di articoli ai quali le piattaforme non associno spazi pubblicitari, cioè ricavi. In altri termini, sarebbe stato importante mettere gli editori in condizioni di proporre un proprio listino prezzi come fa qualsiasi impresa  nel mercato, invece di stabilire un compenso per via “amministrativa”, attribuendo al prodotto editoriale un valore individuato in base alla sua capacità di generare ricchezza per le piattaforme».

Nessun dubbio, invece, sulle competenze dell’Agcom in materia. Tuttavia, secondo la commissaria, il regolamento così concepito potrebbe portare le grandi aziende di Big Tech a fuggire dalla prospettiva di utilizzare i contenuti giornalistici, che potrebbero essere ritenuti non più convenienti dal punto di vista economico: «Certo che l’Agcom doveva essere l’organo competente per facilitare le negoziazioni e dirimere le controversie in caso di mancato accordo, ma il timore è che, con il meccanismo attuale molto oneroso per le piattaforme (e per la vigilanza dell’Autorità), queste ultime potrebbero decidere che il gioco non vale più la candela, come già accaduto in Spagna con Google News che è stato chiuso per ben 8 anni, e più di recente in Repubblica Ceca. La possibilità di una mediazione efficace da parte di Agcom diventa quindi essenziale proprio considerando che il recepimento della direttiva fa dell’Italia un caso unico perché rende la negoziazione obbligatoria. Ma un conto è imporre l’obbligo di pagare un contenuto che si usa, e questo è corretto, un altro conto è imporre l’obbligo di “comprarlo”, cosa che va decisamente oltre le disposizioni della direttiva. La preoccupazione che non può essere trascurata, e che proviene anche dalle esperienze degli altri ordinamenti, è che le piattaforme potrebbero rivalutare l’opportunità e la convenienza di utilizzare i contenuti giornalistici. E in tal caso, assieme agli editori, a rimetterci saremmo noi utenti, che non potremmo più trovare notizie tramite motori di ricerca, commentarle sui social, confrontare tramite aggregatori fonti diverse e spesso sconosciute al grande pubblico».

L’altro dubbio è nel famoso paradosso chi custodirà il custode. Non abbiamo, al momento, delle evidenze sugli organismi di controllo dei dati delle revenues pubblicitarie delle Big Tech e sulla vigilanza della correttezza dei dati relativi ai singoli contenuti editoriali. Chi fungerà, insomma, da ente certificatore su soggetti, come le aziende Big Tech, che non sono mai state particolarmente trasparenti né sugli algoritmi, né sulle loro metriche? «Questo problema è emerso nei paesi (tutti extra-UE) in cui esistono esperienze simili a quella italiana, ovvero di un compenso stabilito per legge – ha detto Elisa Giomi -. In Australia, ad esempio, dove l’intera vicenda ha origine, sono stati conclusi accordi con i principali editori, gruppi grandissimi, del calibro di News Corp. Invece i piccoli editori, che poi sono quelli che dipendono maggiormente dalle piattaforme per dare visibilità alle loro pubblicazioni, sono in difficoltà perché riferiscono dell’impossibilità di tracciare con sicurezza gli utilizzi dei loro contenuti a causa di un’asimmetria informativa. Proprio questo rappresenta per me una ulteriore criticità del regolamento: infatti, non ci sarebbe alcuna necessità di monitorare i dati sui ricavi da pubblicità delle piattaforme se il compenso degli editori fosse basato semplicemente su un listino prezzi determinato in base a proprie e libere valutazioni economiche e commerciali, come avviene tipicamente nel mercato. E ci sarebbero controversie minime se l’Autorità avesse implementato nel regolamento un sistema di incentivi a negoziare in buona fede per raggiungere un accordo equo per entrambe le parti. Ho chiesto del tempo per proporre questo meccanismo che avevo quasi finalizzato, ma il resto del Consiglio ha ritenuto di procedere senza neanche ascoltare la mia proposta. Il meccanismo di calcolo del regolamento potrebbe invece ostacolare la determinazione dell’equo compenso perché richiede una certificazione che quantifichi gli spazi pubblicitari utilizzati, le visualizzazioni per le piattaforme e gli editori, nonché i relativi prezzi da questi praticati agli inserzionisti pubblicitari. Ma soprattutto,  con la fissazione ex-ante dell’aliquota applicabile ai ricavi, il regolamento rischia di indurre le parti a posizionarsi, nell’ambito della negoziazione, verso gli estremi della forbice, individuata arbitrariamente tra 0 e 70%».

Dunque, il rischio è quello che aumenti il divario tra grandi editori e piccoli editori. Mentre la ratio della direttiva, inizialmente, era proprio quella di tutelare questi ultimi: «Sì, questo rischio c’è, soprattutto se il parametro del numero di click viene utilizzato per quantificare l’aliquota da applicare ai ricavi delle piattaforme – conclude la commissaria Giomi -. In questo scenario, ho il forte dubbio che la piccola e media editoria possa essere pienamente tutelata. È un fatto puramente aritmetico. Ho provato a spiegare senza successo che le percentuali calcolate sui ricavi delle piattaforme non sono parametro affidabile per remunerare una pubblicazione giornalistica. Faccio un esempio. Per via delle economie di scala, un grande editore che dà in licenza un numero elevatissimo di pubblicazioni giornalistiche potrebbe voler richiedere una percentuale molto bassa dei ricavi (per es. dal 2,5% al 7,5% come suggerito nelle best practice dei modelli di revenue sharing, cui il regolamento è basato). Dubito invece che questo intervallo possa essere adeguato a remunerare i contenuti giornalistici di editori di piccole e medie dimensioni, per via del minor numero sia di articoli che di visualizzazioni, sebbene le piattaforme possano essere interessate a ospitare i loro contenuti per offrire informazioni variegate a un pubblico composito. Tuttavia, mi corre l’obbligo di specificare che né la legge né la direttiva mirano a tutelare la qualità dell’informazione, ma solo a garantire che i titolari dei diritti possano controllare (anche economicamente) l’impiego delle opere giornalistiche che pubblicano, indipendentemente dalla qualità delle stesse. Diversamente, significherebbe subordinare la tutela del copyright a valutazioni estetiche e morali, in aperta contraddizione con questo istituto».

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