Cosa è cambiato per l’area digital della Rai dal precedente contratto di servizio

Quello valido per il periodo compreso tra il 2018 e il 2022 restava davvero molto vago per tutto ciò che riguardava l'aspetto multimediale. Ma ciò ha consentito a chi si occupava di digitale e di infrastruttura tecnologica di fare il bello e il cattivo tempo

08/11/2023 di Gianmichele Laino

La necessità principale del cambio di contratto di servizio per quanto riguarda la Rai è dettata dal fatto che il quinquennio che stiamo per affrontare ha davanti a sé dei cambiamenti nello sviluppo tecnologico dei mass media che già sono presenti ma che, in un periodo di tempo così lungo per tutto quello che riguarda la tecnologia (cinque anni sono davvero una generazione), sono destinati a proiettarsi ulteriormente nel futuro. Per quanto anche il documento 2023-2028 insista ancora molto sull’aspetto contenutistico (dalla qualità dell’informazione, alle tematiche che questa deve affrontare, passando per lo scopo sociale di determinati progetti e contenuti), è stato necessario indicare nel nuovo contratto di servizio la trasformazione della Rai in una media company (qualsiasi cosa ciò significhi). Ed è sicuramente un passo in più rispetto al silenzio – o poco più – che, rispetto a questo tema, compariva all’interno del contratto di servizio precedente. Tutto ciò non elimina una serie di problemi alla radice.

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Confronto tra contratti di servizio, il modo diverso di trattare il digitale

Il problema più evidente è che, nonostante il contratto di servizio precedente sia stato varato nel 2018 (quando, probabilmente, il quadro dell’innovazione digitale applicata al settore dei media era molto più semplice rispetto a quello attuale), la Rai ha dovuto competere con altre realtà che hanno fatto del digitale un core-business, anche nel periodo precedente al 2022. Dunque, si è trovata a potenziare la propria infrastruttura tecnologica anche prima che questo potenziamento potesse essere previsto all’interno di un nuovo contratto di servizio. Tuttavia, la vaghezza con cui il tema del digitale era stato affrontato nel 2018 ha fatto sì che si aprissero delle praterie per l’introduzione di strumenti forse non così efficaci come avrebbero dovuto essere, non sottoposti a una valutazione oggettiva, non legati a una misurazione precisa, che hanno comunque impattato sulla qualità dell’offerta digitale del servizio pubblico.

Cinque anni fa, ormai, si scriveva – usando una formula molto superficiale – che la Rai era tenuta a:

a) fornire almeno il 90% della propria offerta televisiva e radiofonica lineare in streaming;
b) sviluppare prodotti con contenuti innovativi in tutti i generi della programmazione;
c) accrescere progressivamente l’offerta di prodotti provenienti dalle teche;
d) realizzare in funzione crossmediale prodotti specifici volti alla valorizzazione della radio;
e) accrescere progressivamente l’offerta di prodotti e format appositamente realizzati per una fruizione sulla piattaforma IP

Il 90% dell’offerta televisiva da offrire in streaming è l’unico numero che è presente nel contratto di servizio. Tra l’altro una quota facilmente raggiungibile per come funziona l’ecosistema Rai, dove la stragrande maggioranza della programmazione televisiva veniva automaticamente girata anche sulle piattaforme digitali. Nella sezione della trasparenza non c’era stato nessun riferimento alla comunicazione dell’utenza della Rai sul web (che – infatti – in questo periodo è stata sporadica e, comunque, gestita internamente, al massimo con il supporto dell’Agcom), né la valutazione comparata rispetto ad altre piattaforme confrontabili.

Un confronto sui dati

Il risultato è stato sicuramente quello di aver lavorato allo sviluppo digitale di RaiPlay e di Rainews.it – tanto per citare dei progetti recenti e strutturati – senza però avere un confine d’azione preciso, né per le spese, né per i risultati da portare in azienda. Per cercare di non vincolare quanto fatto fino a questo momento, tuttavia, anche il contratto di servizio più recente (sebbene contenga alcuni riferimenti – che poi vedremo in un altro articolo di questo monografico – alla misurazione quantitativa e qualitativa) non risulta esplicito sui KPI che la nuova media company dovrebbe raggiungere. Lasciando spazio, ancora una volta, a strumenti di valutazione interni, che potrebbero perciò scontare il peccato originale dell’affidabilità rispetto ai normali strumenti con cui si misura il mercato internazionale delle media company.

 

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