Dietro la scelta delle influencer di Shein c’è una precisa strategia che sfrutta inclusività e targetizzazione

Oltre a capire cosa c'è dietro la scelta delle influencer di Shein, risulta fondamentale capire perché il danno maggiore lo hanno subito le creator che hanno scelto di prestarsi più o meno consapevolmente

07/07/2023 di Ilaria Roncone

Perché proprio loro? Dopo aver spiegato chi sono gli influencer che Shein ha scelto di invitare a Guangzhou per vedere uno dei “centri di innovazione” dell’azienda, cerchiamo di capire le ragioni che ci sono dietro la scelta degli influencer di Shein. E come, effettivamente, aver partecipato a questa campagna fallimentare – viste le tante polemiche emerse – risulti essere un danno maggiore per i creator che per il brand.

Le tante inchiesta e la documentazione sulle pratiche di lavoro di Shein – tra sfruttamento, danni all’ambiente e plagio del lavoro creativo di altri brand -, a quanto pare, non sarebbero arrivate fino alle sei creator scelte per la visita: c’è chi è nera o latino americana, c’è chi è oversize, c’è chi è entrambe. Questo l’identikit delle influencer scelte (ben al di là dei semplici numeri) per mettere in mano a persone precise – che si occupano di inclusione e battaglie sociali, questioni che il marketing del giorno d’oggi ha imparato a sfruttare – un messaggio preciso – Shein è buono con i lavoratori e non fa male all’ambiente – per un target preciso – i giovani della gen Z e i millennials, principali compratori –.

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Perché Shein ha scelto proprio loro?

L’identikit delle influencer scelte l’abbiamo fatto. Le stesse influencer che, dopo quanto è successo, sono finite al centro di uno shitstorm che mette al centro la loro scelta di partecipare a questo viaggio e di utilizzare termini come “debunking”, “intervistare” e “giornalismo investigativo” in questi contesti. In particolar modo Dani Carbonari (Dani Dmc) ha pubblicato un video in cui afferma di essersi recata sul posto come giornalista investigativa, appunto, avendo intervistato una donna che lavorava nel reparto dei tessuti e constatando di persona che la situazione dei lavoratori era buona.

Non sono tardate le critiche degli utenti, che l’hanno accusata di riferirsi a se stessa come giornalista in maniera imprecisa e per essere stata – in sostanza – portavoce dell’azienda credendo e affermando, poi, di essere stata altro. L’influencer ha scelto, a un certo punto, di pubblicare un video scusandosi e ammettendo di aver sbagliato a non informarsi in maniera puntuale prima di accettare di far entrare Shein sui suoi canali in quel modo.

Questa operazione, come fa notare il Time, da parte di Shein rientra in un ampio piano che prevede il quotarsi in borsa negli Stati Uniti. Una questione in fase di stallo, però, poiché i legislatori statunitensi hanno disposto che la Securities and Exchange Commission debba chiedere a Shein di verificare in modo indipendente «che la società non utilizzi il lavoro forzato uiguro come condizione per essere registrata per emettere titoli negli Stati Uniti». Puntare su giovani donne che parlano alla gen Z e ai millennials puntando a ripulire la reputazione del marchio e associandola – invece che alle inchieste – alle battaglie di inclusione è una strategia sensata in un mondo in cui, sempre più, gli investitori dimostrano di voler mettere denaro su progetti che tengono conto delle questioni sociali.

La lezione che gli influencer devono imparare

Da questa storia emergono una serie di elementi che devono far riflettere non solo gli utenti che ricevono contenuti – a cui è bene guardare in maniera critica, tenendo conto che la realtà è molto complessa ed è fatta di situazioni come quella di Mondo Convenienza che abbiamo raccontato oggi – ma anche gli influencer.

Queste figure, creator più o meno piccoli, hanno chiesto e chiedono sempre più riconoscimento rispetto a quello che è un lavoro. Un lavoro che li fa comparire sugli smartphone di moltissime persone e che, a tutti gli effetti, comporta delle responsabilità. Quella di informarsi prima di accettare un lavoro pagato da un certo brand, per esempio. O – ancora – quella di saper distinguere in maniera molto netta il frutto del lavoro di un giornalista investigativo e quello dell’influencer che – ricevendo regali o venendo pagato – fornisce determinate informazioni su una certa realtà (nozioni che, ovviamente, sono state sapientemente condivise con gli influencer affinché diventassero veicolo di un messaggio preciso voluto dal brand).

A tal proposito, anche Catalina Goanta (docente associata all’Università di Utrecht ed esperta di influencer marketing) ha sottolineato come tutta questa storia costerà molto di più alle influencer (in particolar modo a Carbonari) che all’azienda, parlando anche del fatto che gli influencer dovrebbero avere – e non sempre anno – cura nei confronti dei propri utenti e di ciò che danno loro in pasto poiché esiste «un elemento di manipolazione del consumatore mascherato negli influencer che appoggiano aziende che violano i diritti del lavoro nella produzione».

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