Cosa non ha funzionato nell’influencer marketing di Shein

Un gruppo di influencer invitate a visitare le fabbriche di Shein - con uno scopo preciso da parte del brand, ovviamente - sono state criticate massicciamente per quello che hanno detto

07/07/2023 di Ilaria Roncone

Ripulire la reputazione sfruttando l’influencer marketing? Ecco un esempio di come il risultato a cui si punta può produrre risultati opposti. Partiamo, se servisse, con una breve presentazione di Shein e con qualche numero. Si tratta di un’azienda di fast fashion cinese che vende online i suoi prodotti a bassissimo costo (occasionalmente sono stati creati dei pop up store, negozi temporanei che saltano fuori all’improvviso – “pop up”, appunto – e che esistono per un tempo limitato). In medi un prodotto Shein costa 7,90 dollari per un totale di 6mila nuovi articoli prodotti e aggiunti sul sito ogni giorno. Nei 2020 Paesi in cui ha operato, Shein ha ricavato nel 2020 8,8 miliardi di euro e nel 2022 è riuscito a raggiungere 30 miliardi di euro.

Numeri grandiosi che hanno portato – inevitabilmente – l’attenzione dei giornalisti e delle grandi testate sulla questione centrale: come funziona il modello di business di Shein? Da poco più di un anno si indaga in merito e, come è ovvio che sia, costi del genere per il consumatore finale vogliono dire che – a qualche livello della catena – c’è qualcun altro che paga la restante parte per lui. Ecco che allora la reputazione di Shein ha subito vari colpi nell’ultimo anno e mezzo (citiamo alcune delle inchieste principali: Greenpeace, Channel 4, Wired, Le Monde). Per contrastare queste inchieste – che pure non sembrano aver intaccato le vendite, almeno per quanto riguarda i dati del 2022 (per i francesi tra i 15 e i 24 anni Shein risulta essere il primo luogo di acquisto) – Shein ha messo un campo una delle armi di marketing più potenti del momento: gli influencer. Con conseguenze, però, inaspettate.

LEGGI ANCHE >>> Perché la Dr. Martens (e non solo) ha denunciato il sito di abbigliamento Shein

La storia delle inchieste su Shein

Cosa è emerso da anni di inchieste giornalistiche e documentazione? Partiamo dalla questione Shein e danni ambientali citando Greenpeace, che ha approfondito i vari aspetti della questione – dai materiali tossici di cui sono fatti, con conseguenze per chi li fabbrica e chi li indossa, alle microplastiche immesse nell’ambiente quando si procede al lavaggio non dimenticando neanche i metodi dello smaltimento rifiuti -:

Abbiamo acquistato alcuni prodotti SHEIN da portare in laboratorio per verificare cosa c’è dentro i vestiti usa e getta del colosso cinese, quali sostanze chimiche contengono, e se queste sono pericolose per l’ambiente e la salute. Abbiamo scoperto che alcuni di questi contengono non solo sostanze pericolose, quali ftalati, formaldeide e nichel, ma addirittura che queste sono presenti in quantità superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee. In pratica, questi prodotti sono da considerarsi illegali a tutti gli effetti. Nell’indagine condotta da Greenpeace Germania, su 47 prodotti SHEIN acquistati in Italia, Austria, Germania, Spagna e Svizzera, il 15% hanno fatto registrare, nelle analisi di laboratorio, quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee. In altri quindici prodotti (32%) le concentrazioni di queste sostanze si sono attestate a livelli preoccupanti, a dimostrazione del disinteresse di SHEIN nei confronti dei rischi ambientali e per la salute umana.

C’è poi la questione dei lavoratori sfruttati – che è poi quella centrale affrontata dagli influencer invitati in una fabbrica in Cina per testimoniare il processo di creazione dei prodotti del brand -: secondo quanto emerso dal lavoro di chi è riuscito a ottenere informazioni in merito, i lavoratori Shein sarebbero sottoposti a turni impossibili (18 ore al giorno con un giorno di riposo mensile), non avrebbero copertura sociale e ci sarebbe un continuo ricambio sfruttando il meccanismo delle agenzie interinali.

Ancor prima, inoltre, ci sono stati casi di brand che hanno denunciato Shein per aver imitato i loro prodotti mettendoli in vendita sullo store online a prezzi molto più bassi. Tra i brand che hanno accusato Shein troviamo Dr Martens e Levi’s – come riporta il Financial Times – e di brand come Zara, a un certo punto, hanno cominciato a comparire online video di confronto tra il capo originale e quello riprodotto e venduto su Shein (in questo video la protagonista afferma che, trovandosi di fronte a una qualità non diversissima dei tessuti, comprerebbe il capo copiato da Shein).

Tra brand washing e repulisti, la campagna degli influencer su Shein

Ed eccoci giunti, dopo le necessarie premesse, alla questione finita al centro dell’attenzione e delle proteste negli Stati Uniti ma che qui in Italia – almeno per ora – non ha avuto una grande eco. Alcune influencer (non influencer a caso ma influencer che combattono diverse battaglie di inclusività, tra cui quelle contro il body shaming) hanno pubblicato sui loro social contenuti in merito alla visita, frutto di un invito, alle fabbriche di Shein in Cina.

L’esperienza è stata raccontata come molto positiva: condizioni dei lavoratori ottime, persone felici di essere lì e tutto quello che – ovviamente – Shein ha voluto far vedere a queste persone. Sono tante le persone che, conoscendo le inchieste che sono state fatte negli scorsi anni sul tema, hanno iniziato a criticare aspramente le influencer coinvolte in quella che è evidentemente un’operazione per ripulirsi l’immagine. Tutto è partito – tra i vari contenuti – da quello pubblicato da Dani Carbonari, che ha scelto non solo di elogiare il marchio ma anche di definirsi «emozionata e colpita» dalle condizioni dei dipendenti delle fabbriche.

Share this article
TAGS