Che cos’è il brand washing

Si tratta di quella pratica con cui, attraverso operazioni di marketing più o meno aggressive, un brand cerca di recuperare credibilità dopo inchieste giornalistiche che ne minano la reputazione

07/07/2023 di Gianmichele Laino

Si fa presto a dire brand washing. Ma – dall’alba dei tempi del settore del marketing – questa pratica è stata costantemente utilizzata da diversi marchi nazionali e internazionali. Puntualmente dopo che un’inchiesta di natura giornalistica o un duro colpo ai consumatori (dovuto, magari, alla qualità del prodotto o a un forte rialzo dei prezzi), il marchio in questione cerca di recuperare attraverso una campagna pubblicitaria a tappeto che sposi valori d’impatto, che si batta per la tutela dei diritti o che dia come risultato il raggiungimento di un obiettivo significativo per una comunità, per un territorio, per una causa. Quando, però, questa campagna promozionale è una reazione a inchieste che mettono in cattiva luce il marchio, quest’ultima viene percepita come poco sincera, come diretta conseguenza della negatività che aveva circondato l’azienda nel merino. E quindi – se condotta in maniera sbagliata – si potrebbe addirittura trasformare in un boomerang.

LEGGI ANCHE > Chi sono le influencer ingaggiate da Shein per la sua campagna in azienda

Brand washing: di cosa stiamo parlando

Solitamente, attraverso i fenomeni di brand washing, i marchi cercano di ottenere dei vantaggi di carattere economico (strizzando l’occhio a un determinato tipo di pubblico) o di tornare nuovamente competitivi dopo che un determinato fatto aveva fatto contrarre le vendite o i volumi d’affari. Tuttavia, si parla di questo fenomeno anche quando – a fronte di una storia personale del brand che aveva preso una direzione ben precisa nell’ambito di tematiche sociali – il marchio impone una sterzata, magari seguendo un trend del momento o cercando di cavalcare l’onda dei gusti e delle aspirazioni della propria clientela.

Alcuni casi noti di brand washing legati a marchi italiani e internazionali

Abbiamo a lungo parlato di Shein e abbiamo anche portato all’attenzione il caso di Mondo Convenienza, in un momento in cui quest’azienda deve affrontare alcune vertenze sindacali interne. Ma la storia dei marchi – in Italia e nel mondo – è fatta di contrasti tra l’informazione e l’ecosistema commerciale. Balenciaga è stata criticata fortemente per l’utilizzo ambiguo di minori all’interno dei suoi sponsor: una vera e propria ondata di indignazione – portata avanti da diversi influencer di tutto il mondo – ha fatto sì che l’azienda tornasse sui propri passi.

Diverse aziende dell’agroalimentare in Italia erano state accusate (e lo sono ancora oggi) di utilizzare delle pratiche inquinanti per le loro produzioni (si veda, ad esempio, il recente approfondimento di Report, firmato da Giulia Innocenzi, ex direttrice di questa testata, sugli allevamenti intensivi del prosciutto crudo di Parma). Il coinvolgimento di figure istituzionali, di politici, di associazioni di categoria per la difesa dei valori di un marchio enogastronomico del made in Italy e la conseguente campagna di stampa successiva che ne riporta le posizioni possono a buon diritto essere considerati degli esempi concreti di brand washing.

Clamoroso, qualche anno fa, fu l’epic fail di Dolce & Gabbana. Per uno spot legato al mercato cinese, venne immortalata un’attrice di uno spot mentre cercava di afferrare con le bacchette un cannolo siciliano. La didascalia “è troppo grande per te” fece scalpore, insieme a tutti gli stereotipi che lo spot stesso conteneva. Non bastò una dichiarazione contrita dei due stilisti per fare operazione di brand washing e recuperare rispetto allo svarione pubblicitario:

A volte, insomma, il brand washing non è sufficiente. E – quando il marchio non è sufficientemente forte o affermato – può sfociare in una conseguenza ancora più estrema: il re-branding. Ovvero, la costruzione da zero di una nuova immagine coordinata.

Share this article