Lo “scherzetto” del governo con il passaggio di PagoPA (anche) a Poste

L'operazione è stata inserita all'interno del decreto PNRR. E potrebbe provocare una serie di problemi a catena

10/03/2024 di Redazione Giornalettismo

Per alcuni giorni è stato un tema rimasto sottotraccia a causa del linguaggio burocratico-legislativo che (sempre) viene utilizzato quando viene scritto un decreto legge. Oggi, però, la decisione del governo italiano di procedere con il passaggio delle quote di PagoPA dal Ministero dell’Economia al tandem Poligrafico dello Stato e Poste Italiane è palese e sta provocando preoccupazioni e malumori. Secondo quanto indicato all’articolo 20 del decreto PNRR, entrato in vigore lo scorso 2 marzo, il 51% delle quote andrà nelle mani dell’Istituto Poligrafico (sotto il controllo pubblico), mentre il restante 49% andrà a Poste (che è un ibrido tra pubblico e privato).

PagoPA, tutti i problemi del passaggio (anche) a Poste

La piattaforma per effettuare pagamenti verso la Pubblica Amministrazione è sempre più utilizzata dagli italiani. Oltre il 20% dei cittadini la utilizza (attraverso differenti PSP) per il versamento delle tasse il pagamento di multe e bollette. Ma da dove nasce il problema? Qualora l’operazione – definita per legge – dovesse andare in porto, questo strumento finirebbe anche nelle mani dei privati. Come noto, infatti, Poste non è interamente pubblica e per l’imminente futuro lo stesso governo Meloni sta provando a cedere il 35% nella mani del MEF ad altri privati. Questo, secondo alcune banche, potrebbe provocare gravi problemi a livello di libera concorrenza.

La questione, dunque, è molto delicata. Questo passaggio potrebbe portare – nella peggiore delle ipotesi – alla nascita di ostacoli strutturali (e anche economici) nei confronti dei concorrenti di Poste Italiane. E mentre anche la politica si è accorta del contenuto del testo del decreto legge, non è da escludere che l’operazione possa incagliarsi con un ricorso all’AGCM. L’Autorità Antitrust, infatti, potrebbe bloccare tutto valutando anti-concorrenziale questa decisione del governo Meloni.

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