Mussolini è stato fucilato agonizzante perchè tentò di suicidarsi

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di Alberto Bertotto

“La verità autentica è sempre inverosimile…”
(Fedor Michajlovic Dostoevskij)

“Come aviene a un disperato spesso,  che da lontan brama e disia la morte,  e l’odia poi che se la vede appresso,  tanto gli pare il passo acerbo e forte”

(Ludovico Ariosto)

Questa è una storia che nessuno vuole raccontare, ma che riguarda ciascuno di noi. E’ una storia che tocca tre generazioni: quella dei ventenni che fa finta di saperla, quella dei quarantenni che fa finta di ricordarla e quella dei sessantenni che fa finta di averla dimenticata. Ciò che ho voluto raccontare è una ragionevole provocazione della storia. A chi ama il mistero della verità, a chi ha il coraggio di aprire gli armadi in cui sono nascosti gli scheletri del passato e a chi accetta il giallo delle congetture, è dedicato questo articolo che ha il sapore di un impegno, quello di indagare Mussolini.

Bonzanigo, Comune di Mezzegra, circondario del lago di Como. 28 aprile del 1945, ore tra le 4 e le 6 del mattino. Piove e fa freddo. Tutto è silenzioso all’intorno di un grande fabbricato intonacato di bianco. In lontananza il canto di un assiuolo e qualche latrato di cane alla catena. Claretta Petacci, reclusa con Benito Mussolini nel cascinale dei coniugi Giacomo e Lia De Maria, si assenta per fare delle abluzioni nel “bagno” rustico che sta nell’ampio cortile dell’abitazione rurale. Ha un problema periodico tutto femminile che la costringe più volte ad assentarsi sotto sorveglianza (testimonianza di Lia De Maria). Dopo aver lavato e strizzato le mutandine, perché sporche di sangue mestruale, le ripone in una tasca della pelliccia e rientra in camera. La sorpresa è sconvolgente: trova il Duce agonizzante, ha la bava alla bocca, rantola ed è in preda a crisi convulsive subentranti. La donna, terrorizzata, si mette ad urlare. A tutto pensa meno che a mettere ad  asciugare l’indumento intimo. Lo lascia dove si trova, nella tasca della pelliccia che ha indosso. I due partigiani di guardia (Giuseppe Frangi, Lino, e Guglielmo Cantoni, Sandrino) entrano di corsa nella stanza. Non possono sussistere dubbi: Mussolini ha cercato di suicidarsi avvelenandosi. Pensare al cianuro è scontato, quasi un obbligo. Bisogna ovviare, non può finire così, sarebbe uno smacco per tutto il movimento partigiano e per i comunisti in particolar modo. Il Duce è una preda ventennale troppo ambita. Non può sfuggire dalle loro mani omicide per un “fortuito” imprevisto. “Bisogna ucciderlo come un cane tignoso”, aveva detto il socialista Sandro Pertini pochi giorni prima. Gli fa da eco il leader comunista Palmiro Togliatti parlando da Radio Bari: “Lo si deve sopprimere subito dopo l’accertamento d’identità”. Luigi Longo (numero due del PCI) era in perfetta sintonia: “Va fatto fuori immediatamente senza frasi storiche, senza teatralità”. Queste raccomandazioni il Frangi non se l’è fatte ripetere due volte. Lino, un bruto che fin da giovane era conosciuto per il suo carattere riottoso (lo chiamavano Dillinger, il famoso gangster americano), non esita un istante. Facendosi aiutare da Sandrino, trascina fuori della stanza Mussolini prendendolo per l’allacciatura dei mutandoni e, dall’alto in basso e da sinistra a destra, fa partire una scarica di mitra (un parabellum calibro 9). Nessuno potrà dire che il Duce non è morto ammazzato. Tutti diranno che ad ucciderlo sono stati i partigiani con il fazzoletto rosso al collo senza il concorso di altri o di altro. Il telefono dell’albergo Milano di Azzano (situato a circa duecento-trecento metri da casa De Maria) viene utilizzato dai guardiani comunisti del Duce (Lino e Sandrino) per avvisare i loro capi a Dongo. Da Dongo la notizia rimbalza prima a Milano (CNLAI) e poi a Como (federazione del PCI). L’ordine è quello di sopprimere subito la Petacci, la testimone di un evento che deve essere occultato a tutti costi. Da Como Luig  i Canali (il capitano Neri che in nottata, insieme ad altri, aveva portato i due celebri amanti a Bonzanigo e che era presente nella sede comasca del PCI) ripercorre a ritroso la strada fatta in antecedenza e raggiunge casa De Maria. Ci sono testimonianze che lo affermano. Il Neri ordina a Lino, un suo fidato sottoposto, di uccidere Claretta. Scelga lui il momento migliore anche se è meglio non far passare troppo tempo. Lino obbedisce ed uccide Claretta sparandogli alla schiena (così è sicuramente morta la Petacci. Uno squarcio sulla superficie posteriore della sua pelliccia lo dimostra). Il dramma si compie. Testimoni nessuno (chi c’era non ha, comunque, mai parlato). Ai giornalisti che lo intervistano Sandrino fornirà, nel tempo, diverse versioni contrastanti. Al missino Giorgio Pisanò, per esempio, ha detto che lui, davanti al cancello di villa Belmonte a Giulino di Mezzegra (luogo della fucilazione “ufficiale”), ha visto il colonnello Valerio sparare su due cadaveri morti da un pezzo. Nell’immediato dopoguerra il Neri, implicato anche nell’affaire del famoso oro di Dongo, scomparirà per sempre. E’ meglio mettere a tacere chiunque sia stato coinvolto nella morte del Duce.

Ci sono una serie di elementi che corroborano questa ricostruzione dei fatti. Li vado ad elencare seguendo un ordine logico:

1) Lino, dopo il 28 aprile, ha compiuto una serie di delitti che hanno dell’incredibile. Ha detto Michele Moretti (commissario politico della 52° Brigata Garibaldi, quella che ha fermato la colonna Mussolini diretta in Valtellina e che, il 27 aprile alle tre del pomeriggio, ha operato l’arresto del Duce a Dongo): “Lino non era più in se. Perché un conto è giustiziare dei criminali di guerra, un conto è seviziarli come si era messo a fare lui (si riferisce ai fascisti reclusi, dopo il 28 aprile, nella caserma dei Carabinieri di Dongo). Per Raffaello Uboldi (un giornalista-scrittore): “Lino era un duro che non fa prigionieri, li sgozza e li butta nel lago”. Ha scritto Mario Baudino: “Un partigiano di nome Lino presenziava agli interrogatori cui venivano sottoposte le detenute, senza dire una parola, ma ogni notte prelevava qualcuno, lo portava fuori e lo ammazzava”. Così si è espresso Florido Borzicchi: “Lino, ricorda uno dei fascisti della colonna Mussolini, il lucchese Mario degli Innocenti, mi apparve all’improvviso nella caserma dei Carabinieri dove mi avevano rinchiuso con la figlia naturale del Duce, Elena Curti. Era notte fonda, alla luce di una candela lesse alcuni nomi, gli appellati lo seguirono piangendo e gridando. Tra di essi c’era anche il federale di Dongo, Buttera. Tutti furono trascinati via ed ammazzati. Anche il Buttera fu trovato in fondo al lago. I venti e più fascisti furono assassinati con un colpo alla nuca e squartati perché il loro corpi non salissero a galla. Lino morì il 5 maggio (1945) a guerra ormai finita. Fu rinvenuto cadavere sul greto del fiume Albano che sfocia nel centro di Dongo. Le circostanze della morte non furono mai chiarite ed il suo caso fu archiviato in fretta. Si disse fosse stato dilaniato dal fortuito scoppio del fucile che portava a tracolla, ma c’è chi mormora che fu ucciso dai suoi compagni per averla fatta grossa. Di certo, a Dongo, e dintorni, quando si pronunci a il nome dell’ex guardiano del Duce a Bonzanigo, nessuno parla volentieri. Basta però accennare al Diavolo rosso, così lo avevano soprannominato, perché tutti facciano un gesto di raccapriccio”.

2) A Pietro Carradori, l’attendente di Mussolini prigioniero anche lui a Dongo, Lino si è rivolto affermando: “Con questo mitra ho ucciso il boia e la sua amante. Cinque colpi a lui e tre a lei”. Continua il Carradori commentando: “Il Diavolo rosso aveva il mitra stretto in mano e brandito verso l’alto, sul volto più che un sorriso un ghigno. Lo osservai con curiosità mista a sgomento e fin da quel primo momento non ebbi dubbi: da come aveva pronunciato quelle parole, dal lampo sinistro che aveva nello sguardo, mi resi conto che non mentiva. Forse con lui anche altri avevano sparato, forse non si era nemmeno reso conto da chi e per quali ragioni gli era stato ordinato, o consentito, di sparare. Sta di fatto che l’esecutore materiale del duplice delitto era sicuramente lui, il Diavolo rosso”. Da notare un fatto: il Carradori non sapeva che il Duce, prima di essere fucilato, aveva tentato di suicidarsi.

3) Sentiamo ancora cosa ci dice il Borzicchi: “C’è quasi da pensare che a stringere quel mitra che sigillò il ventennio fascista furono altri che Valerio (W. Audisio, ndr) e Moretti (il partigiano Pietro, ndr), forse uno dei due guardiani del Duce a Bonzanigo, Giuseppe Frangi, detto Lino di Villa Guardia di Como. Se andò effettivamente così, l’alterazione dei fatti compiuta sarebbe comprensibile. Lino come vendicatore di soprusi recenti, angelo sterminatore della eventennale tragedia non reggeva la parte. Di lì a poco, infatti, si macchierà di tali delitti che avrebbero gettato una luce sinistra sulla nuova alba che si levava. Se fu Lino a sparare su Benito e Claretta, si spiega dunque il mistero che ancora circonda quell’episodio di vita italiana. L’esecutore del Duce, negli anni della guerra civile, non doveva essere un impresentabile”. Nonostante fosse un malvagio, Lino, morto a 34 anni, è stato seppellito davanti a tutta la nomenklatura del PCI. A Giuseppe Frangi, patriota, è stata intestata una strada a Villa Guardia, il suo paese natio. Luigi Conti, il sindaco comunista di Dongo eletto dopo la liberazione, ricorda che “la bara del Frangi fu portata in Municipio ed esposta alla folla nella Sala d’Oro. Nessun altro ebbe un trattamento così”. Durante l’orazione funebre tenuta davanti alla salma del Frangi, il gross bonnet comunista Oreste Gementi (Riccardo) ha detto: “…sei stato ucciso da mani fratricide” (comunicazione personale del professor Turconi di Como). Un documento ufficiale attesta: “Il sottoscritto ARRIGONI MARTINO, già Intendente della formazione Gramsci della 52° Brigata Garibaldi dichiara che: <…mentre eravamo in appostamento nei pressi della località Vigna di Dongo, al Frangi (che aveva il mitra fra le braccia) gli partì inavvertitamente un colpo che lo ferì mortalmente in faccia. Erano le una e trenta del 5 maggio 1945>”. Un fatto è sintomatico: proprio a Lino verrà data in dono la pelliccia della Petacci subito dopo la sua esecuzione. Dopo aver trovato, in una delle tasche, le mutandine di Claretta, Lino le ha fatte ovviamente sparire. Ecco perché la giovane donna è giunta a piazzale Loreto con il ventre nudo. Un altro “mistero” storico troverebbe così la sua logica spiegazione. Nelle tasche del Frangi morto sono stati trovati fogli che il Duce teneva in quelle della sua divisa. Dopo aver ucciso Mussolini, Lino ha fatto incetta dei suoi documenti per dimostrare che il tirannicida era stato lui.

4) Elena Curti, una figlia naturale di Mussolini anche lei catturata ed imprigionata a Dongo, mi ha detto: “Mentre ero ancora prigioniera a Dongo (28 aprile-10-12 maggio del 1945) un partigiano mi si è rivolto dicendo che Mussolini, la mattina del 28 aprile, si era suicidato e che è stato trovato disteso sul letto mentre rantolava agonizzante. Lo hanno trascinato di peso fuori dalla stanza per ammazzarlo. Io ero fortemente dubbiosa sul fatto che il Duce avesse tentato il suicidio perché ero sicura che non aveva armi con se. D’altra parte in quei giorni tutti dicevano che era stato fucilato il 28 aprile alle quattro del pomeriggio davanti al cancello di villa Belmonte a Giulino di Mezzegra. Per questo motivo non ho mai rivelato a nessuno ciò che allora avevo appreso. Ero convinta che mi avessero raccontato solo delle fandonie. Alla luce di quanto ho saputo da Lei quello che ho riferito testé assume un nuovo significato. Dieci anni fa, in occasione di un documentario girato dagli inglesi tra Gargnano e Dongo, un ex partigiano (Osvaldo Gobbetti) mi ha riferito, dopo averlo saputo da un compagno che aveva assistito di persona ai fatti di Bonzanigo, che la Petacci era stata uccisa mentre tentava di allontanarsi. Lo stesso patriota comunista che aveva parlato con il Gobbetti ha specificato che era rimasto scioccato per la crudeltà della scena. La Petacci è stata, infatti, proditoriamente colpita alla schiena. Continuo a ricercare in me stessa la verità perché non voglio, parlando a sproposito, raccontare storie come fanno molti”.

5) Guglielmo Cantoni (Sandrino, il secondo guardiano di Bonzanigo) ha scritto un memoriale che non è mai stato ritrovato. In esso veniva fatto il nome dell’uccisore del Duce. Sicuramente non era uno dei Killer per antonomasia di volta in volta chiamati in causa, ossia Walter Audisio (colonnello Valerio), Aldo Lampredi (Guido) o Michele Moretti (Pietro).

6) A piazzale Loreto i mutandoni del Duce erano scompaginati nella loro allacciatura anteriore. Ciò non era dovuto ad atti vandalici di folla perché l’anomalia è comparsa e si è resa evidente solo dopo che a Mussolini era stata sfilata la camicia per trazione dal basso (il capo fascista era stato impiccato per i piedi al traliccio di un distributore di benzina). Il dottor Aldo Alessiani (medico legale presso Tribunale Penale di Roma), già nel 1995, ha asserito che lo scompaginamento dei mutandoni era un segno che poteva essere riferito o ad una antecedente colluttazione o ad un trascinamento avvenuto in casa De Maria in quel di Bonzanigo.

7) Il giaccone (di foggia borghese e con le maniche raglan, facile da far indossare ad un cadavere in rigidità catalettica), i pantaloni e la camicia nera di Mussolini esposto al ludibrio di piazzale Loreto erano imperforati. Il Duce, guarda caso, non aveva la giacca le cui maniche a tubo hanno, probabilmente, reso difficoltosa la vestizione di un cadavere in preda al rigor mortis. Per contro, i suoi mutandoni di flanella al polpaccio e la sua maglietta della salute (bianca) era perforati ed insanguinati. Quando è stato ucciso il Duce era quindi in déshabilleé. Il che significa che si trovava ancora in casa De Maria. Studi su fotografie della maglietta analizzate al computer, tramite tecniche di arricchimento delle immagini, hanno dimostrato sul tessuto residui di polvere da sparo incombusta (professor Giovanni Pierucci, Medicina Legale, Università di Pavia). Ciò dimostra che i colpi sparati sul Duce (agonizzante per aver ingerito il cianuro?) sono stati esplosi da una distanza non superiore a 50 centimetri. Nove sono state le ferite vitali riscontrate sul corpo di Mussolini. Molti fori sulla cute avevano una forma ovalare. Il che significa che i proiettili hanno raggiunto la vittima obliquamente (esecutore in piedi, esecutato disteso a terra).

8)  Sul selciato del piazzale milanese, lo stivale destro del Duce era vistosamente danneggiato. La cerniera lampo posteriore era rotta da cima fondo. Con uno stivale in quelle condizioni, Mussolini non poteva di certo camminare. Davanti al cancello di villa Belmonte (Giulino di Mezzegra) lo hanno portato di peso (falsa o doppia fucilazione). Chi, nella mattinata del 28 aprile, ha cercato di far calzare lo stivale ad un piede retratto per la rigidità cadaverica ha sforzato la chiusura a saracinesca rompendola e rendendo la calzatura inservibile.

9) Un signore di Como, Luca Martinelli, non so se sia uno pseudonimo o meno (non sono, infatti, riuscito a rintracciarlo), ha scritto ad Effedieffe (un sito telematico) perché voleva commentare un articolo di Maurizio Barozzi. Il comasco ha asserito di aver saputo da una pronipote dei De Maria che i loro figli, quando sono ritornati a casa dopo aver trascorso la notte del 28 aprile in montagna per far posto a Mussolini ed alla Petacci, hanno trovato Lia De Maria ed altre donne che pulivano il pavimento dell’ingresso di casa perché era sporco di sangue. Una notizia analoga è riportata sul libro di F. Bartolini intitolato: Lario nascosto (Editoriale, 2006). Il parroco di Bonzanigo ha affermato che la camera in cui Mussolini e Claretta hanno trascorso la loro ultima notte è stata mostrata alla curiosità dei fotografi solo 4 o 5 giorni dopo i luttuosi fatti di Bonzanigo. Si dovevano cancellare tracce non conformi alla vulgata ufficiale? (quella di Walter Audisio alias colonnello Valerio e compagni). Una testimone oculare, Dorina Mazzola, ha detto a G. Pisanò di aver assistito personalmente all’assassinio della Petacci. Claretta è stata uccisa verso le 12 del 28 aprile sullo spiazzo erboso antistante casa sua. I comunisti, nei giorni a seguire, hnno fatto recapitare in casa della Mazzola una bomba a mano disinnescata. Un chiaro monito minaccioso: taci o se no ti facciamo fuori.

10) Un sensitivo di Genova, il signor Athos Agostini, stimato commerciante ormai in pensione (77 anni), mi ha riferito che nel 1975 a Varenna (ramo di Lecco del lago di Como) gli è apparso, in una visione extrasensoriale, il Duce etereo che gli ha raccontato i fatti come li ho esposti più sopra. Mussolini si era fatto impiantare a Rastemburg (20 luglio del 1944) una capsula di cianuro nel cavo di un dente protesico. Era stato lo stesso Adolf Hitler che, scampato da poche ore ad un attentato (quello portato a termine dal colonnello Klaus von Stauffemberg), lo aveva convinto a ricorre a quell’espediente da utilizzarsi nel disgraziato momento in cui fosse caduto vivo nelle mani di un nemico (al Duce, inoltre, i partigiani avevano sottratto i carteggi (tra cui quello cosiddetto Churchill-Mussolini) con cui pensava di difendersi in un futuro processo istruitogli dagli alleati. Il che lo aveva ulteriormente depresso). Il signor Agostini, dimostrando di essere una persona seria, ha depositato quanto sapeva presso un notaio di fiducia. Io stesso ho appurato che l’impianto di un contenitore di vetro, rivestito di gomma ed avente le dimensioni di un piccolo pisello, può essere comodamente indovato nel cavo di un dente finto. La sua mobilizzazione, al momento opportuno, può avvenire facendo ricorso ad un semplice movimento della lingua (consultare il libro Spy book di N. Polmar e T. B. Allen, Random House Reference, 2004). Non appena catturato Saddam Hussein, i medici americani gli hanno accuratamente ispezionato il cavo orale per escludere che conservasse una capsula di cianuro in una protesi dentale cava. Durante l’autopsia del Duce il dottor Pier Luigi Cova Villoresi ha annotato: “in bocca a Mussolini mancano parecchi denti e tutti quelli superiori di destra”. Il che potrebbe (anche) significare che Mussolini in vita era portatore di una o più protesi dentarie.

11) Una famosa medium torinese, soprannominata la Contessa, già nel 1958 (molto prima che comparisse per la prima volta sulla stampa la versione della doppia fucilazione, la farsa inscenata dai partigiani comunisti davanti al cancello di villa Belmonte a Giulino di Mezzegra) ha detto che lo spirito di Mussolini aveva descritto la sua morte in termini molto simili a quelli riferiti dal signor Athos Agostini di Genova. Della Contessa hanno parlato in molti. Persino il famoso giornale parigino France Soir ha riportato, enfatizzandole, le sue “scoperte” (vedi R. Baschera. I grandi di ieri ci parlano del domani. MEB, 1995).

12) Nel 1999 o nel 2000 o nel 2001 il signor Agostini mi ha detto di aver visto un documento RAI (rete tre, mese autunnale, seconda serata) in cui un imprecisato medico americano ha dichiarato di aver trovato tracce di cianuro nel frammento biotico del cervello del Duce da lui analizzato. Il signor Agostini ha incaricato il suo legale, avvocato Riccardo Dellepiane, di richiedere alla RAI una duplicazione su cassetta di quella trasmissione televisiva. La RAI ha risposto che non poteva duplicarla perché l’Ente di Stato non era autorizzato a soddisfare le richieste che provenivano da un utente privato. La lettera di risposta (in cui erano precisati gli estremi del programma televisivo) il signor Agostini l’ha persa ed a distanza di anni non ne ricordava più il contenuto nei suoi dettagli. La lettera scritta dall’avvocato R. Dellepiane, altrettanto dettagliata, non è stata protocollata da RAI-Teche di Roma ed attualmente si trova, tra altri migliaia di documenti, nel deposito cartaceo RAI di Pomezia (600 metri quadri pieni di scartoffie!). Due persone, una di Viareggio ed una di Treviso, mi hanno confermato di aver visto anche loro quel documento RAI. Nessuno dei due, però, si ricordava il titolo. Un anno fa il dottor Enzo Cicchino, un regista della RAI che ha mandato in onda numerosi programmi storici sul fascismo, mi ha confidato: “Anni fa in RAI un mio collaboratore mi ha interpellato dicendomi: <Enzo, è vero che Mussolini ha tentato di suicidarsi con il cianuro? L’hanno detto l’altra sera in televisione>. <Non dire fesserie> gli ho risposto. Sopra pensiero non ho dato peso a quelle parole. Se l’avessi fatto forse adesso potrei aiutarti”.

13) Un frammento prelevato dal cervello del Duce durante l’autopsia (30 aprile del 1945) è stato inviato in America conservato il formalina. Negli USA il reperto biotico è stato esaminato dal professor Winfred Overholser (Ospedale Sant’Elisabetta di Washington DC). Un secondo campione autoptico è stato analizzato al Walter Reed Institute of Pathology, sempre di Washington DC, dal dottor Webb Haymaker. Entrambi gli Istituti, da me contatti, hanno negato che la ricerca di ioni cianogeni sia stata effettuata nei loro laboratori. Molti professori universitari di Medicina Legale mi hanno avvertito che le mie ricerche americane erano inutili in quanto la biopsia cerebrale del Duce era stata inviata negli USA all’interno di un contenitore contente formolo. Questo liquido conservante avrebbe impedito la messa in evidenza del cianuro in quanto si sarebbe formato un composto (la cianidrina) che impediva di dimostrare la presenza del tossico letifero.

14) Il professor Roberto Gagliano Candela, ordinario di Tossicologia Forense all’Università di Bari, ha premiato le mie ostinate ricerche, confutando le tesi di altri suoi colleghi. Mi ha infatti testualmente scritto: “Tutti questi test (venivano elencati i test ed i relativi riferimenti bibliografici) prevedono di fa reagire con acidi, a caldo, gli organi o il contenuto gastrico sospettati di contenere cianuro. Si ottiene uno sviluppo di acido cianidrico volatile che va a reagire con una striscia di carta imbevuta di solfato ferroso. L’aggiunta di acido cloridrico produce un intenso colore blu (blu di Prussia o ferrocianuro di potassio). Il test è molto sensibile (rivela anche quantità 100 volte più piccole del milligrammo) e si può adoperare anche su tessuti fissati in formalina. Ovviamente il campione in analisi deve essere sufficiente. Non basta un vetrino, ma si deve avere a disposizione almeno mezzo grammo di tessuto”. Il campione prelevato dal cervello del Duce pesava 10 grammi. Alcuni dicono che, in realtà, ne pesava addirittura 50. A buon intenditor poche parole. Non si capisce, inoltre, il motivo per il quale gli americani abbiano voluto un pezzettino di cervello del Duce. Il professor Pier Gildo Bianchi, un famosissimo neuropatologo di Milano, aveva già studiato i vetrini allestiti da tessuto cerebrale di Mussolini ed aveva subito notificato la sua diagnosi in USA: tessuto perfettamente normale. Inoltre aveva consegnato in America tutto un set di vetrini non colorati che potevano essere utilizzati per confermare la relazione da lui sottoscritta. Cosa volevano scoprire di nuovo i medici statunitensi, utilizzando non un vetrino, ma bensì un frammento cerebrale a tutto spessore di Mussolini? (il cianuro si accumula di preferenza nella sostanza grigia, quella più profonda che il professor Bianchi non ha esaminato. Lui ha solo studiato la parte esterna, ossia la corteccia encefalica (sostanza bianca) che notoriamente è la porzione cerebrale più evoluta). L’alibi americano era quello d’indagare se il leader fascista era affetto o meno da neurosifilide. Una scemenza. Tutti sapevano che Mussolini in precedenza aveva fatto numerosi accertamenti sierologici, uno perfino in Inghilterra. Esito: reazione di Wasserman negativa (assenza di Lue). Il Duce a Gargnano giocava a tennis. Una tabe dorsale (sifilide cronica terziaria) non gliel’avrebbe di certo consentito. Durante l’autopsia del capo fascista, inoltre, nessuna lesione vascolare (aortica) ha dimostrato un pregresso interessamento patogeno (cronico) di tipo luetico.

15) Studi recenti eseguiti da patologhi statunitensi e pubblicati su riviste scientifiche internazionali hanno inequivocabilmente dimostrato che “la diagnosi autoptica dell’avvelenamento acuto da acido cianidrico è difficile se non impossibile” a meno che non siano accessoriamente presenti alcuni sintomi: flogosi acutissima delle mucose del tratto gastroenterico, sangue color rosa-rosso e non color vino, chiazze cutanee rossastre ed odore di mandorle amare all’apertura della cavità gastrica o della teca cranica. Se il cianuro si sprigiona da una capsula infranta tra i denti, il tossico viene assorbito per via perlinguale. Non fa a tempo a raggiungere l’esofago e lo stomaco e a determinarne le lesioni flogistiche. Colui che ha eseguito l’autopsia del Duce (il dottor Caio Mario Cattabeni, Medicina Legale, Università di Milano) non ha potuto fare una diagnosi circostanziata perché non esistevano i presupposti medico-legali, e cioè i sintomi autoptici, per pensar e ad un tentato suicidio mussoliniano mediato dai cianuri. Causa ufficiale del decesso: ferite multiple da arma da fuoco (inferte in limine mortis in un individuo agonizzante per aver tentato di suicidarsi con il cianuro?).

16) All’autopsia di Mussolini un dato autoptico è stato, forse, frainteso: le leptomeningi mussoliniane erano ectasiche e congestionate. Il reperto è stato interpretato essere la conseguenza dell’impiccagione per i piedi. Una congestione dei vasi della pia madre encefalica può far parte integrante del quadro che in alcuni casi si osserva durante l’autopsia in soggetti deceduti per intossicazione acuta da acido cianidrico.

17) Una velina di un referto istobioptico del 1945 trovata al Walter Reed Institute, contrassegnata da una sigla (le iniziali del nome e del cognome?, ricordo impreciso) e contenuta in una busta contrassegnata dal termine Oltremare, si riferiva ad un esame di un civile (non era né un militare USA in carriera, né un veterano) morto per fucilazione. La diagnosi era avvelenamento acuto da tossici ed il frammento autoptico esaminato era il cervello. Perché si sono cercati tossici cerebrali in un soggetto morto per ferita da arma da fuoco? (comunicazione personale del dottor R. Ambrosio, Washington DC). Perché quella velina portava la dicitura: Non archiviare? Va comunque precisato che in quegli anni il Walter Reed Institute eseguiva esami autoptici ed istologici anche per la Polizia distrettuale della Colombia (provenienza del materiale biologico da un civile).

18) a morte indotta dall’intossicazione acuta da acido cianidrico avviene, in genere, entro 3-5 minuti. Non sono rari, tuttavia, i casi di una sopravvivenza di ore. Michele Sindona, ad esempio, è rimasto in vita, in uno stato comatoso, per ben 92 ore dopo aver ingerito una tazzina di caffè avvelenata con il cianuro. Non meraviglia quindi il fatto che Mussolini non sia morto istantaneamente in casa De Maria (Bonzanigo) dopo aver frantumato tra i denti una capsula contenente il tossico letale.

19) La poliangolazione e la polidirezionalità balistica riscontrata all’autopsia sul corpo del Duce trova una sua logica spiegazione nel fatto che l’esecutando, quando è stato attinto dai proiettili sparati dal mitra partigiano dall’alto in basso e da sinistra a destra, era in preda a movimenti afinalistici ed a violente scosse convulsive indotte dall’ingestione dei sali di cianuro.

20) Le fotografie scattate all’obitorio milanese di via Ponzio, il 29 aprile di pomeriggio-sera, dimostrano che nei cadaveri là depositati (Mussolini e la Petacci) era presente un rilasciamento muscolare (fase successiva a quella del rigor) che aveva interessato il collo, il tronco e gli arti superiori. Le immagini sono compatibili, cronotanatologicamente, con un decesso avvenuto il 28 aprile di mattina presto, molto prima delle 16,20, ora della cosiddetta fucilazione “ufficiale” (cancello di villa Belmonte a Giulino di Mezzegra).

Se riuscirò a dare un nome e cognome al medico americano che in televisione (RAI-tre) ha detto che Mussolini ha tentato di avvelenarsi con il cianuro in quanto il suo cervello ne conteneva tracce evidenziabili, l’ipotesi da me formulata assumerà tutto un altro spessore. Facendo i debiti scongiuri credo che mi sto avvicinando sempre più ad afferrare la notizia catodica, grazie alla collaborazione di qualche lettore del mio libro (La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere. PDC Editori, 2008) ed alla sua prodigiosa “network memory”. Un’ultima considerazione: nell’aprile del 1994, alla vigilia della morte, il Duce aveva consegnato a Goffredo Coppola (Rettore dell’Università di Bologna, sarà fucilato anche lui a Dongo) un suo articolo affinché fosse pubblicato su Civiltà Fascista. In quell’articolo Mussolini faceva un elogio sperticato del suicidio (vedi M. Trinali. Un colpo di pistola in casa De Maria. Semerano,1966). Di una sola cosa sono certo: “La onesta sottomissione alla verità”, di cui parla lo storico francese Marc Bloch, ha sempre fatto difetto ai comunisti italiani.

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