L’intervista (che potrebbe ritorcersi contro di noi in qualsiasi momento) all’artista del busto fake di Marconi

Dove finisce la fake news e dove iniziano i codici comuni che regolano l'ecosistema delle informazioni? Ne parliamo con Karlo Mangiafesta (?)

18/10/2021 di Gianmichele Laino

Questa non è un’intervista. O meglio, lo è ma con un’avvertenza. Un po’ come un’opera famosissima di Magritte. Karlo Mangiafesta ha accettato di parlare con noi del clamoroso disvelamento della fake news dell’imbrattamento della statua di Guglielmo Marconi al Pincio. Ma ha lasciato comunque un alone di mistero intorno alle sue rivelazioni sul tema. Ve ne abbiamo parlato già ieri e vi abbiamo spiegato come questa notizia abbia attirato su di sé l’attenzione di diverse testate, abbia provocato dibattito sui social network, abbia addirittura contribuito alla modifica di un lemma di Wikipedia. Peccato che, al Pincio, non ci sia mai stata una statua di Marconi e che il volto ritratto in quella imbrattata fosse quello dello stesso artista (che usa spesso i tratti del suo viso come forma di espressione artistica, basta visitare il suo account su Instagram per capire cosa si intende).

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Karlo Mangiafesta e l’azione al Pincio

«È un po’ di tempo che sto analizzando la comunicazione in campo digital e i suoi effetti globali – ci spiega al telefono -. Le suggestioni che ho arrivano dalla cronaca: penso a tutto il discorso sulle elezioni americane e il ruolo di Trump, fino al modo che ognuno di noi ha per presentarsi sui social network. La mia è una identità trasformata, ma chi può dire di non avere una identità trasformata online? Questo è ciò che mi agita dentro, è l’esigenza: mi sento inerme di fronte a questo acquario di Facebook. Se ho scelto il Pincio è perché è un luogo che mi è molto caro, un luogo pieno di splendide cose un po’ abbandonate a se stesse. È un luogo che ha molti legami con la storia, con la memoria, con l’oblio. Soprattutto, c’era un basamento vuoto: come se fosse stato il destino a comunicarmi che quel piccolo pezzo, quel piccolo vuoto andava colmato».

Quindi, la ratio della performance artistica. Un messaggio indirizzato verso una città che è talmente piena d’arte da sottovalutare alcune sue espressioni (in questo caso, il numero di statue effettivamente presenti al Pincio e il dare per scontato che, tra queste, ci fosse il busto di Marconi) o al mondo della stampa, così superficiale nell’affrontare una notizia che, in realtà, partiva da un presupposto sbagliato, che andava verificato. “Debunkato”, come si usa dire adesso.  «In generale – risponde il performer -, la cosa che mi fa riflettere su quello che faccio è che un simbolo può evocarne tanti altri. È la cronaca che ci suggerisce ciò di cui si parla. Non do una interpretazione univoca: ci possono essere entrambe le cose o nessuna delle due tra quelle proposte. A me piace l’idea che ci sia un simbolo che possa evocare tante cose, non solo una».

E allora, tra questi simboli, mettiamoci anche la denuncia di quello che sta diventando – per gli utenti del web – Wikipedia. L’enciclopedia open source (che ancora oggi – nel pomeriggio del 18 ottobre – mostra fiera l’immagine del “busto” di Marconi imbrattato) ha aggiunto, in seguito alla notizia dell’azione di Karlo Mangiafesta, un nome all’elenco delle 228 statue del Pincio, facendole diventare 229. Eppure, Wikipedia è il primo risultato che i motori di ricerca restituiscono quando abbiamo un dubbio su un aneddoto o su una nozione. Una performance di questo tipo, allora, diventa un vero e proprio punto di rottura per l’informazione digitale e per le nozioni che quest’ultima può suggerirci.

Dal ruolo di Wikipedia a quello della stampa sulla vicenda del busto di Marconi

«La modifica di Wikipedia non è stata intenzionale – spiega l’attore -. Ma sentendo le tue parole mi immedesimo nella persona che per prima è andata a modificare quella notizia. Per adattare un lemma, su Wikipedia, occorre citare una fonte. Immagino che chi abbia inserito le immagini del busto possa essere stato qualcuno che aveva visto la notizia. Allora, mi dico: è nato prima l’uovo o la gallina?».

La stampa, poi, è andata a ruota. Lo hanno fatto gruppi e pagine Facebook che hanno animato – anche in passato – il dibattito sulle statue, sull’opportunità della loro esistenza anche in presenza di un passato non proprio limpido del personaggio di volta in volta ritratto. «È interessante notare come l’ambiguità di un messaggio sia colmata dai fruitori di quel messaggio. Pensiamo anche al video dell’imbrattamento: è stato caricato da esponenti di estrema destra con una colonna sonora piena di pathos, le immagini sono state accostate a slogan potentissimi, addirittura c’è stato il museo della Radio di Verona che ha fatto un video di condanna all’accaduto, senza verificare l’effettiva presenza della statua di Marconi al Pincio. Quanto voleva lanciare un messaggio in difesa di Marconi e quanto invece voleva sfruttare l’episodio per farsi pubblicità? Inizia prima la voglia di interazione per lanciare un messaggio o si lancia un messaggio per cercare interazioni?».

Da qui, dunque, il disvelamento. Sia della notizia in sé, sia del modo con cui opera, attualmente, la maggior parte della stampa: «La notizia violenta era quella più utile per ottenere le tanto agognate visualizzazioni. L’unico personaggio che si era accorto della notizia fake è stato un utente di Twitter che aveva scritto: “A cojoni, er busto di Marconi ar Pincio nun c’è mai stato” (in realtà, un tweet simile – risalente al 13 settembre – aveva una formula leggermente diversa e meno romanizzata, ndr). Sembrava un po’ lo scemo del villaggio, il folle che è l’unico a vedere la realtà. Altri commenti rilevanti sono quelli di persone che hanno augurato alla mia faccia di subire lo stesso imbrattamento. Senza sapere che quella ritratta nel busto era proprio la mia faccia. In ogni caso, sono stato io a guidare il disvelamento della fake news. Ma a riguardo non voglio aggiungere niente». Anche l’ultimo bagliore di speranza che un giornalista se ne fosse accorto autonomamente, andando a scovare Karlo Mangiatesta e chiedendogli conto del suo gesto, va in frantumi.

Inutile pensare che tutta l’attività artistica del performer possa comunque concentrarsi sul mondo del digital. Guardingo nei confronti dei social network, immagina già altri progetti e sa disseminare qualche indizio su possibili nuove attività. «Il mio rapporto con la mia immagine all’interno di internet si limita a una fase di studio. La mia faccia è ovunque. A differenza di Banksy, la mia faccia si vede sulla mia pagina Instagram, che non utilizzo spesso, all’interno della quale sostituisco il mio volto a quella di personaggi ritratti in momenti della storia che reputo significativi. Quello delle fake news non è l’unico ambito all’interno del quale mi interessa sperimentare. Il fatto che lo stia indagando con così tanta attenzione, significa che lo reputo importante in questo momento. Chissà cosa mi riserverà il futuro. Magari un progetto sull’amore, un progetto sul futuro. Qualunque cosa, potrei fare un dipinto…».

Ma quando gli chiediamo quanto ci sia di vero nell’intervista che ci ha rilasciato, l’illusione continua: «Nessuna». E ci saluta con un altrettanto enigmatico «Addio».

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