«Tornare alla comunità e lasciar perdere la community»: Fondazione Carolina su Inquisitor Ghost

Insieme a Ivano Zoppi, Segretario Generale di Fondazione Carolina, abbiamo analizzato la tragica vicenda di Inquisitor Ghost provando a individuare le cause sulle quali occorre agire

13/10/2023 di Ilaria Roncone

La vicenda di Inquisitor Ghost è tragica sotto più punti di vista, come stiamo spiegano nel monografico di oggi, e abbiamo voluto commentarla con Ivano Zoppi, Segretario Generale Fondazione Carolina (realtà nata per commemorare Carolina Picchio, vittima di cyberbullismo online che si è tolta la vita oltre dieci anni fa). Vittime del cyberbullismo e delle sue dinamiche ce ne sono state tante in questi anni e, ancora una volta, la sensazione è quella di non essere riusciti a fare abbastanza affinché il 23enne protagonista della triste vicenda non diventasse vittima di queste dinamiche.

Ancor prima che le indagini cominciassero e che il padre del tiktoker pubblicasse un post in merito, su TikTok c’erano già moltissime persone – all’estero e in Italia – che diffondevano dettagli, immagini, fatti imprecisi, voci su questa storia. E chi avrebbe spinto Inquisitor Ghost al gesto estremo ha agito proprio sfruttano i social e i loro meccanismo. Di questo abbiamo dialogato con il segretario generale.

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«C’è un pruriginoso desiderio di esserci anche senza elementi»

Che cosa sia effettivamente accaduto lo deve stabilire la polizia, lo può dire il padre del ragazzo, non possono dirlo tutti quelli che stanno affermando “ho ricostruito questo, ho ricostruito quello” su TikTok ottenendo visibilità

«Proprio questo è il punto. Che una vicenda tragica, che deve rimanere intima per la famiglia, per i parenti, per gli amici diventi un modo per poter avere ancora di più visibilità. Questo è quello che mi preoccupa. Io ne parlo perché i social mi danno la possibilità di dire quello che voglio, quando voglio, come voglio e con i pochi elementi che ho a disposizione, magari ricostruendo cose che non hanno senso».

E mi posizione pure bene, considerati i numeri dei contenuti che trattano il tema che abbiamo spiegato nella nostra precedente analisi

«Io non credo che la piattaforma sia il luogo giusto per parlare di una tragedia del genere (soprattutto, ricordiamolo, mentre la tragedia sta avvenendo e prima ancora che le indagini in merito alle cause del suicidio possano cominciare n.d.R.). C’è una pruriginosa curiosità, un pruriginoso desiderio di esserci anche senza elementi. Questa è diventata la spettacolarizzazione di una tragedia: proprio per questo aspetto di pruriginosa curiosità io sto lì, guardo, vedo, registro e divento protagonista neanche tanto involontario di quello che sta accadendo. Devo dire la mia, devo esserci, devo trovare una modalità che mi permetta comunque di essere visibile. Questo credo che vada fermato, è importante che TikTok e le altre piattaforme con i loro sistemi di filtro, con i loro sistemi di prevenzione rispetto a questi contenuti li blocchino e li tirino giù immediatamente perché, altrimenti, si alimentano».

Queste persone «devono essere anche denunciate. Non può esserci solo “ti tiro giù dalla piattaforma”, ci deve essere “ti tiro giù dalla piattaforma e ti faccio bussare a casa dalla polizia”, perché tu stai commettendo uno scempio: so delle cose, vedo delle cose, diffondo delle immagini precludendo, intralciando e interferendo con le indagini. Queste vicende aumentano la confusione e alimentano la mania di protagonismo della gente. Siamo alla deriva rispetto ai valori che dovrebbero guidarci quando succede una cosa del genere. La percezione è sempre quella di stare compiendo un atto in rete, che quello che succede in rete rimane in rete».

«Occorre una continuità educativa sul cyberbullismo»

Nelle scuole non si insegnano queste cose in modo continuativo 

«Siamo messi così. Noi quotidianamente siamo nelle scuole, facciamo tantissimi progetti e portiamo tantissimi messaggi ribadendoli, ma qui è un discorso culturale. E la cultura la si costruisce con decenni di lavoro. Tu puoi dire cyberbullismo, rispetto in rete ma se glielo dici una volta sola, per sei ore in classe, sei una meteora. Ed una meteora può lasciare un seme, ma quel seme va coltivato poi da chi rimane, dai docenti e dai genitori. Sono tutti segnali che stiamo dando da tempo: non è sufficiente l’esperto che entra in classe e ti dice quali sono i pericoli della rete. Ti dà quelli che sono gli spunti di riflessione, ma poi occorre una continuità educativa che manca. Su questi temi manca completamente e c’è una delega di responsabilità da parte dei genitori alla scuola e da parte della scuola a quell’esperto che dice tre cose, giuste magari, ma che poi rischiano di rimanere appese lì senza alcun approfondimento».

«Il punto è che questi cambiamenti vanno apportati a partire dalla quotidianità, la cultura la si costruisce con la prassi. Ma se la prassi è, come in questo caso, faccio un video perché devo essere visto e fare follower, siamo messi male. Se veramente qualcuno lo ha diffamato, accusandolo di pedofilia, questa cosa è gravissima. E sono certo che di questo non si capisca fino in fondo il peso e la responsabilità perché è accaduto in rete. La leggerezza e la superficialità con cui si mettono in atto comportamenti che rischiano di far male alle persone e manca quella domanda: “Ma se capitasse a me? Come mi sentirei, cosa farei?”. Quella domanda chi diffama non se la pone. Ed è ora, invece, che si cominci a riparlare di questo tema in questo modo. Non è più sufficiente parlare di cyberbullismo, ormai tutti sanno cos’è e sanno la definizione. Andiamo oltre. Perché il cyberbullismo, episodi come questi, sono l’effetto e non la causa. Non dobbiamo più lavorare sugli effetti, dobbiamo andare alla radice. La radice del problema nasce nel desiderio di vedersi, nel desiderio di essere seguiti e di essere comunque presenti in un mondo che rischia di far male alla gente se non è gestito».

Storie come quella di Inquisitor Ghost sono lo specchio del fallimento educativo

Anche il giovane che ha compiuto il gesto in diretta, forse, lo ha fatto perché aveva bisogno essere visto

«Assolutamente. Questo è il problema. Come stanno questi ragazzi? Noi ci interroghiamo spesso sul mondo degli adolescenti ma, in realtà, siccome è da un po’ che ci interroghiamo sul mondo degli adolescenti, quelli di qualche anno fa ora sono giovani. E come li abbiamo accompagnati a comprendere e a costruire la propria identità? Come li abbiamo accompagnati a costruire il proprio percorso di vita? Io credo che qui ci sia un fallimento incredibile della comunità educante di cui pagheremo le conseguenze con questo e altri episodi. Dobbiamo svegliarci, dobbiamo ritrovare il modo di accompagnare questi ragazzi a costruire un loro percorso di vita. Perché se uno decide di togliersi la vita è perché non vede il futuro, non vede domani. E questi attacchi in rete lo distruggono, lo buttano a terra. Quante volte, nella vita da giovani, ci hanno preso in giro? Sei grasso, sei brutto, quattrocchi. Però avevamo, forse, un po’ più di capacità di resistere a queste cose, forse una maggiore capacità di rivolgerci a qualcuno e di confrontarci con qualcuno».

Credo anche l’impressione che ci fosse una vita al di fuori, per esempio, di quella classe che ci insultava

«C’è proprio un concetto importante, che dobbiamo tornare alla comunità e lasciar perdere la community. E questo sistema lo abbiamo costruito noi. Il mondo adulto è quello che ha detto ai ragazzi: ecco la rete, vi abbiamo messo a disposizione i social, entrate perché è una figata. E ora gli stiamo dicendo di uscire perché è pericoloso. Occorre davvero che gli adulti si mettano in seria discussione: che cosa stiamo apparecchiando per la vita di questi giovani? Come stiamo costruendo la strada che li può portare a formare la propria identità e la propria personalità. Soprattutto, quegli strumenti che gli permettono di resistere e di vivere una vita reale, capendo che quello che avviene in rete ha conseguenze: il giovane non si è ucciso sui social, si è tolto la vita per davvero. E di questo si deve prendere coscienza, perché troppi ragazzi arrivano a considerare la vita come un elemento non importante, come un disvalore. E credo che grossa responsabilità sia nella rete e in quei contenuti che accadono e circolano nella rete, soprattutto quando incontrano le fragilità di un ragazzo e di una ragazza – senza parlare del caso specifico – che non sono solidi e non hanno struttura per poter reggere. Questo è il vero problema di cui non ci accorgiamo. La riflessione nella quotidianità deve essere: abbiamo bisogno di riflettere su un suicidio o abbiamo bisogno di riflettere su quello che facciamo tutti i giorni? Se cambiamo la prassi nella quotidianità arriveremo a cambiare la cultura. Ma bisogna lavorare sodo e non lo stiamo facendo».

A partire dalle scuole

«Ma qui stiamo parlando ancora del 6 in condotta, delle punizioni. Il punto dovrebbe essere costruire dei percorsi che permettano ai ragazzi di stare bene. I programmi di educazione civica sono di 33 ore l’anno. Occorre rivedere il sistema scolastico, tornare a educare e non solo a istruire i ragazzi. Questo significa dar loro la possibilità di avere degli adulti di riferimento che li accompagnino nelle scelte. Non sanno scegliere perché non vedono prospettive, possibilità e futuro»

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