Il lupo della Sardegna
05/06/2009 di Igor Jan Occelli
Anni ’80, anni di piombo. Delitti atroci bagnano di sangue il suolo dell’Arcipelago. Fra questi si cela la mente di un killer che compie crimini “inspiegabli” portati a compimento con una inaudita efferatezza.
La mattina del 4 settembre 1982 l’Italia si svegliò avvolta da un sole caldo. Il cielo sereno e i mari calmi davano senso all’appellativo di Belpaese con il quale da sempre veniva chiamata. Aprendo le finestre, chiunque avrebbe detto di trovarsi di fronte a una splendida giornata, una di quelle che ti mettono il buonumore addosso, che ti fanno sembrare, anche se solo per un attimo, un uomo migliore. Ma la tragedia hobbesiana dell’homo homini lupus era già stata impressa dalle rotative dei giornali ed era lì, sopra i banconi dei bar e nelle edicole, ad attendere che qualcuno la vedesse. La mattina del 4 settembre 1982, a dispetto del tempo, l’Italia si trovò a vivere l’incubo. Giù, nella terra delle arance, la mafia aveva assestato un duro colpo allo Stato. La notte del 3 settembre aveva ucciso il paladino scelto apposta per combatterla: Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ormai abbandonato a sé stesso, come le cronache degli anni successivi avrebbero riportato, il generale era stato crivellato di colpi mentre tornava a casa sulla sua 112 in compagnia della moglie, Emanuela Setti Carraio, e dell’agente di scorta Domenico Russo. Era stato un agguato in piena regola: una Bmw si era affiancata veloce alla macchina e il commando aveva aperto il fuoco dei propri Ak47. Alla tragedia della sua morte se ne era affiancata un’altra, e forse proprio questa sconvolse davvero gli italiani. In molti, infatti, consideravano “la lotta alla mafia” come un’entità astratta, qualcosa di cui sanno l’esistenza ma solo a livello teorico. La maggior parte degli italiani ignoravano l’organizzazione criminale, semplicemente perché non ne avevano mai avuto un’esperienza di conoscenza diretta, ed erano certi che non l’avrebbero mai avuta nemmeno in futuro. L’altro delitto, invece, sembrava riguardare tutti, padri, madri, figli.
UN CICLONE DI PAURA – La notte del 3 settembre, nella parte Sud-Ovest dell’altra isola, la metà privilegiata per le vacanze dagli italiani, e precisamente a Marina di Arbus, una coppia di turisti tedeschi (Marie Heide Helken Yager, 27 anni, impiegata di Francoforte, e Siegfried Heslman, 30, imprenditore di Monaco) era stata trovata esanime, con i corpi anch’essi crivellati di colpi. Ed era evidente che qualcuno avesse violentato più e più volte la donna. La psicosi si diffuse in attimo. Da tempo gli italiani, e i toscani su tutti, erano scossi nelle loro coscienze dalla scia di sangue che il Mostro di Firenze stava lasciando dietro sé. La brutalità dei suoi delitti, la loro dinamica e la scelta delle vittime, sempre giovani coppie che si appartavano a fare l’amore, lasciavano la popolazione basita e impotente. Gli italiani si interrogavano e si chiedevano se fosse giusto abbandonare le proprie case per far consumare ai propri figli lì i loro rapporti. La polizia e i carabinieri consigliavano di appartarsi in luoghi aperti, parcheggi o zone illuminate, dove sarebbero stati al sicuro. La psicosi comunque si concentrava soprattutto in Toscana, ma questo nuovo delitto la diffuse a macchia d’olio. La possibilità, seppur remota, che il Mostro di Firenze avesse la capacità di muoversi, di prendere traghetti o aerei, andare in trasferta e compiere un assassinio di questo genere, aveva gettato il Belpaese nel panico. E non era nemmeno un’ipotesi così peregrina, visto che la “pista sarda” agli inquirenti era ben conosciuta. Fortunatamente, il panico sarebbe durato poco. Al delitto d Marina di Arbus mancavano troppe caratteristiche perché fosse riconducibile al Mostro: non c’era stata nessuna asportazione dei genitali o di parti del corpo della ragazza, non era stato trovato nessun elemento ritualistico, come pentacoli o piramidi di massi. Tutte cose presenti invece nei delitti del Mostro. Così l’Italia, tornava ben presto ad aprire le finestre e a illudersi che quelle mattine di sole che continuavano ad avvolgerla potessero rendere un uomo migliore. Agli inquirenti restava invece da risolvere quel rebus che non riuscivano a decifrare. Quell’atroce delitto era indubbiamente strano. L’assassino si era accanito con foga sui due corpi. Le tracce lasciate raccontavano di un delitto passionale, come se fossero stati puniti. Ma di cosa? Quale poteva essere la colpa di due turisti che si trovano a passare su una stradina semideserta? Delitti così, statisticamente, erano riconducibili a famigliari o conoscenti, che magari covavano odio o rancore nei confronti delle vittime, oppure a pazzi. In questo caso, non rimaneva che la seconda scelta. Trovare un pazzo o, meglio, uno psicopatico, in grado di pianificare e compiere un delitto di questo genere e poi tornarsene tranquillamente alla propria vita, non sarebbe stato facile. E il caso rimase lì, su uno scaffale, in attesa che qualcosa venisse fuori.
UNA LUNGA SCIA DI SANGUE – Anche quella del 22 settembre 1986 era un giornata calda. La colonnina di mercurio, anche se era appena arrivato l’autunno, continuava a segnare imperterrita i suoi 30°C a mezzogiorno. Il vento, praticamente assente, appena 10 Km/h. L’appuntato, era stato costretto a sostare davanti all’ovile, ed ora non ce la faceva davvero più: doveva togliersi almeno un secondo il berretto ed asciugarsi il sudore che colava dalla fronte. Dentro, i suoi superiori guardavano il corpo di Antonio Frau, 50 anni, un allevatore di Arbus, che penzolava dal soffitto. Che si fosse suicidato appariva inverosimile, non fosse altro perché si vedeva che qualcuno aveva messo a soqquadro il posto. Qualcosa era stato cercato e forse non era stato nemmeno trovato. Anche in questo caso, il delitto sembrava raccontare di una punizione. Ma quale poteva essere la colpa di un piccolo allevatore come Frau? Una domanda, anch’essa, destinata a rimanere per ora senza risposta. L’appuntato, in quell’alba di quasi quattro anni dopo, del 6 maggio 1990, provava quasi un brivido di freddo. L’aria era fresca e lasciava presagire senza ombra di dubbio che sarebbe venuto a piovere. Si era voltato un attimo, verso l’entrata della macelleria, e i suoi occhi erano rimasti attratti da quella chiazza marrone scuro che si fermava proprio sull’uscio. Dentro, Luigi Melis, 61 anni, il padrone del negozio, giaceva senza più un volto: una fucilata lo aveva raggiunto sfigurandolo orribilmente. Era stata un’esecuzione questo omicidio, né più né meno. Qualcuno aveva voluto uccidere il macellaio. Scavando nella sua vita, gli inquirenti avevano scoperto che aveva intenzione di lasciare tutto per dedicarsi alla pastorizia. La moglie, però, non l’aveva presa proprio bene, questo era stato subito chiaro. Ma prove che potesse aver commesso lei il delitto non esistevano. Nella provincia, intanto, gli episodi di criminalità diventavano sempre più frequenti. Traffico di armi e di droga; un altro assassinio, quello di Modeno Tuveri, un pastore di 35 anni ucciso il 1 novembre del 1990 con una fucilata al viso; un attentato contro il giornale l’Unione Sarda; e rapine alle banche, erano solo alcuni degli episodi di violenza che continuavano a susseguirsi. Episodi di criminalità comune che stavano rendendo la vita difficile alle forze di polizia. Finché un giorno, di colpo, vengono arrestate 11 persone. Una sorta di associazione a delinquere che ha fatto il bello e il cattivo tempo nella provincia di Cagliari. Fra loro c’è anche un certo Sergio Curreli, è nato ad Arbus nel 1960 e ufficialmente fa l’allevatore. Curreli diventa ben presto un collaboratore di giustizia e inizia a raccontare dei suoi traffici e dell’organizzazione che era stata messa in piedi. A rompere le uova nel paniere arrivano i magistrati. Per il delitto del macellaio hanno capito che è stata Rina Ruggeri, la moglie, a commissionarlo. Guarda caso proprio a Curreli, per due milioni di lire. La moglie di lui conferma tutto. Il marito, racconta, la portava sempre a vedere i suoi depositi di armi e i luoghi dove aveva commesso i suoi omicidi. Omicidi? Sì, plurale. Gli inquirenti indagano e partono da Gelosa, la cagnetta di Curreli. Quella cagnetta che il 3 settembre 1982 si trovava a camminare nelle stradine di Marina di Arbus e viene investita da un furgoncino Volkswagen. Un furgoncino guidato da due turisti tedeschi in vacanza sull’isola. Curreli li ha visti, li ha seguiti e ha deciso di punirli. Allo stesso modo aveva deciso di punire Antonio Frau: in casa sua ci dovevano essere otto milioni di lire, ma di questi non c’era traccia. I tedeschi e l’allevatore avevano pagato con la vita i loro sbagli, una giusta punizione per Curreli. Su tutto era stata fatta luce. Fatti lontani erano stati collegati, delitti irrisolti erano stati spiegati. Nella piccola provincia di Cagliari si aggirava un serial killer, ma nessuno se ne era mai reso conto. Non seguiva lo stesso modus operandi nel compiere i propri delitti, come il Mostro di Firenze, ma era altrettanto feroce. Così, nonostante il sole, era evidente che aveva ragione Hobbes “l’uomo è un lupo per l’uomo“.