Un libro spiega perché Facebook ci utilizza come topi da laboratorio
03/04/2018 di Stefania Carboni
Un like, una gratifica. Uno status per una ricerca di appartenenza, una foto pubblicata per far parte di una tribù. Dopamina, e ancora dopamina. Facebook è un laboratorio scientifico e noi siamo le cavie. Anche perché «solo Dio sa cosa Facebook sta facendo al cervello dei nostri figli», sentenziava, non molto tempo fa, l’ex presidente Sean Parker.
Il social più famoso al mondo viene analizzato, prima ancora che scoppiasse il caso Cambridge Analytica, nel libro “Il lato oscuro di Facebook“, scritto da Federico Mello per Imprimatur. In pratica di capitolo in capitolo l’opera di Mello ci spiega come siamo dipendenti dalla piattaforma di Zuckerberg, come i tabagisti con la nicotina.
Si parte dagli studi cognitivi più importanti applicati poi alla dinamica dei social. Fino alla psicologia dei like che ci portano a guardare compulsivamente se abbiamo ricevuto notifiche o meno. Nel libro si raccolgono tutte le critiche di chi ha lavorato al progetto di Mark Zuckerberg, tutte gli aspetti negativi del potere in mano a un grande colosso privato fino al più grande furto che questa tipologia di rete fa in ognuno di noi ogni giorno: il tempo.
Federico, nel tuo libro si paragonano varie sperimentazioni scientifiche e cognitive con Facebook. Ci sono vari esempi. In quelli da te descritti, secondo te quale è quello che calza completamente con la definizione di “esperimento Facebook”?
Io penso che Facebook, nel suo funzionamento profondo, si ispiri direttamente ai trucchi del gioco d’azzardo online. Lo scopo delle imprese dell’azzardo e dei casino non è quello di “spennare” il giocatore, ma piuttosto quello di farlo giocare il più possibile. Facebook fa qualcosa di simile: ci vuole attaccati il più possibile alla sua piattaforma. E riesce a farlo avendo costruito negli anni, studiando e studiandoci, quella che io chiamo un “social slot machine”: quando apriamo l’applicazione di Facebook è come se tirassimo la leva di una sorta di slot machine, anche se in questo caso invece di soldi, vinciamo notifiche. Così come succede nei casino, anche su Facebook ogni dettaglio è studiato per rendere questo meccanismo il più efficace possibile.
Facebook non può mantenersi solo con la pubblicità. Perché ci vuole produttivi al massimo?
Facebook di fatto si mantiene quasi soltanto con la pubblicità. Però per far vendere la pubblicità, deve esserci qualcuno che guardi il più possibile contenuti tra i quali piazzare pubblicità. Renderci produttivi (con i perenni inviti e con architetture apposite) permette di centrare due obiettivi: in primo luogo ci porta a fare più “scommesse” sulla “social slot machine”: più numerosi sono i post (le nostre “puntate” in qualche modo), maggiore il numero di volte che torneremo a controllare se abbiamo “vinto” notifiche. In secondo luogo, rendendoci produttivi, ci porta a produrre contenuti per tutti gli altri utenti della nostra cerchia, contenuti ai quali poi si può associare le pubblicità.
Una multinazionale privata conosce amici, data di nascita, gusti, preferenze sessuali, religiose di oltre un miliardo e 400 utenti nel mondo. Facebook può esser lasciata libera di operare come un privato? Questo problema secondo te non è sottovalutato?
Assolutamente sì. Anzi, secondo me è arrivato davvero il momento di dire basta. Lo affermo senza dubbi: c’è bisogno di una campagna politica e di opinione per togliere Facebook a Mark Zuckerberg. Zuckerberg oggettivamente è stato un genio, ha realizzato uno strumento potentissimo che ha avuto un crescita incredibile. Ma adesso uno strumento così potente non può più rimanere nella mani di una sola persona, che peraltro lo gestisce in maniera opaca e autocratica. Non può essere più privata una piattaforma che influenza 2 miliardi di persone: è come se, in qualche modo, un privato possedesse un arsenale di testate nucleari, o piuttosto fosse proprietario di tutti i canali televisivi del mondo. Un potere del genere in mano ad una sola persona, senza nessun meccanismo o ente di controllo, è del tutto inaccettabile e non più tollerabile.
Ma è Facebook l’unico colpevole? Non attua lo stesso meccanismo anche Google o Spotify, per esempio?
Certo, vale per tutti i big della Silicon Valley, a partire da Google e senza dimenticare la stessa Apple. Ma forse Facebook è il primo di cui occuparsi per il potere diretto che ha sulla percezione del mondo delle persone. E la battaglia per ripensare una rete nuova e migliore, una rete che sia piattaforma pensata per il benessere collettivo e non per il profitto privato, può forse partire proprio mettendo al centro il ruolo di Facebook.
“La tecnologia non è buona né cattiva, tutto dipende dall’uso che se ne fa”. Nel tuo libro ritieni questo concetto falso e fuorviante. Perché abbiamo perso questo limite?
È una visione ideologica promossa dalle multinazionale del digitale e dai loro uffici marketing, ma anche da uno stuolo di persone normali o sedicenti esperti, magari anche in buona fede ma ingenue e ignoranti in materia, che non capiscono le dinamiche basilari della tecnologia. Le tecnologie non sono mai neutre: pensiamo a cosa sarebbe Facebook se non ci fosse il tasto “mi piace” (nei primi anni non c’era infatti) o se fosse possibile pubblicare contenuti pornografici: sarebbe tutto un altro ecosistema mediatico. Anche adesso non è neutro e, per quanto sappiamo, si spinge ad alimentare la nostra dipendenza e a renderci massimamente produttivi. Ma Facebook ha anche il potere, modificando l’algoritmo che seleziona le notizie che ci compaiono in timeline, di stabilire cosa dobbiamo vedere del mondo. Questo potere potrebbe usarlo anche per scopi politici, o per altri fini oscuri, e non abbiamo elementi per escludere che non l’abbia già fatto.
Dopo Cambridge Analytica secondo te riusciremo a sfruttare questo momento per una riflessione seria su profilazione, privacy dati e informazione on line? Se sì come, se no perché questo non sta accadendo?
Lo scandalo Cambridge Analytica è una prima fondamentale tappa, per cambiare la nostra percezione sui social network. Non è possibile ancora oggi, nel 2017, pesare alla rete come la pensavamo 20 anni fa, quando era ancora un luogo libero, figlio più delle accademie che degli uffici marketing, quegli stessi anni in cui Larry Page e Sergey Brin, i fondatori di Google, spiegavano che un motore di ricerca basato sulla pubblicità sarebbe stato dannoso, perché avrebbe distorto i risultati offerti agli utilizzatori (e oggi, dopo vent’anni, sono monopolisti della pubblicità online). Internet e le sue piattaforme ormai sono diventati i nuovi monopoli che rispondono unicamente a logiche di profitto, nonostante ormai influenzino direttamente e pesantemente campi (come lo stesso dibattito democratico) che con il profitto di privati non dovrebbero avere nulla a che fare. Tutto ciò non è più tollerabile. Le cose devono cambiare, nel mio piccolo farò di tutto perché questo succeda, spero che altri si vogliano unire in questa che io ritengo una delle sfide campali di questo secolo.