I 300 milioni del decreto sostegni non serviranno a salvare la DaD

Nel provvedimento approvato ieri, c'è spazio per la scuola, con un riferimento specifico alla didattica a distanza

20/03/2021 di Gianmichele Laino

«Interessi tedeschi???» e occhi sgranati. Questo resta, per la maggior parte dei quotidiani online, se si fa riferimento alla conferenza stampa di Mario Draghi, attraverso la quale il presidente del Consiglio ha presentato il cosiddetto decreto sostegni per rispondere all’emergenza economica e sociale che ancora permane durante questa recrudescenza della pandemia. Ma chi si occupa di online, di web, di internet, avrebbe dovuto analizzare più a fondo il rapporto tra DaD e decreto sostegni. Già, perché nelle pieghe del decreto, sono stati inseriti dei finanziamenti per la scuola. Da una prima stima, questo fondo dovrebbe ammontare a 300 milioni di euro e dovrebbe prevedere non soltanto un supporto alla didattica a distanza, ma anche alla messa in sicurezza delle scuole.

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DaD e decreto sostegni, l’aspirina contro il coronavirus

Di sicurezza nelle scuole sentiamo parlare da tanto tempo. Di DaD, invece, soltanto da quando c’è la pandemia, anche se tentativi di modernizzare la didattica erano stati fatti già in passato in alcune scuole italiane pilota. Nel corso di questo anno pandemico iniziato a marzo 2020, abbiamo assistito a diversi decreti e provvedimenti che hanno messo budget sulla scuola e sulla sua innovazione tecnologica. In principio fu il decreto Cura Italia, con gli 85 milioni di euro destinati alle scuole: una piccola parte per dotarsi di piattaforme di e-learning, una parte ancor più piccola per la formazione dei docenti, la maggior parte per consentire l’acquisto di supporti digitali da mettere a disposizioni di studenti bisognosi.

A questi vanno ad aggiungersi il piano scuola che riguarda il collegamento dei plessi scolastici alla Banda Ultralarga. Si tratta di altri 400 milioni di euro e che danno idea di quanto il nostro Paese fosse tagliato fuori dalle linee di connessione in un settore strategico come quello della scuola. In seguito all’approvazione del decreto ristori, tra fine ottobre e inizio novembre, l’allora ministra Lucia Azzolina aveva stanziato anche altri 85 milioni di euro per la didattica digitale integrata (che è cosa diversa rispetto alla DaD, lo ricordiamo), ma che riguarda comunque l’innovazione tecnologica nei metodi di insegnamento.

Se si aggiungono i 300 milioni del decreto sostegni (alcuni, come detto, destinati alla sicurezza scolastica), con buona approssimazione possiamo dire che, dall’inizio della pandemia fino a questo momento, circa 870 milioni di euro sono stati destinati in maniera diretta al potenziamento digitale dell’istruzione. Ma sono stati denari che sono serviti, principalmente, a soddisfare i prerequisiti fondamentali per un sistema di didattica alternativa: collegamento alla banda ultra larga, acquisto di pc, tablet e altre piattaforme informatiche, formazione iniziale dei docenti (in piccolissima parte). Sono stati una sorta di primo mattone per una scuola che, a livello digitale, era in fase più che embrionale.

La percezione della DaD e il digitale nella scuola senza visione

Perché la DaD non si improvvisa e, soprattutto, non si fa semplicemente collegandosi su Google Meet o su Zoom e svolgendo la lezione frontale come se ci spostassimo da un’aula fisica a un’aula virtuale. Prendiamo una recente ricerca realizzata con il supporto Ipsos e commissionata da Parole O_stili e Istituto Toniolo: oltre il 40% degli studenti ha percepito un peggioramento nelle proprie attività di studio e il 65% fatica a seguire le lezioni. Il 96% durante la DaD ha chattato con i compagni, l’89% è stato sui social media, l’88% ha consumato cibo e il 39% ha cucinato. Ripetiamolo insieme: il 39% degli studenti ha cucinato. Non per hobby, ma mentre era in DaD.

Facile intuire, dunque, che non può esistere DaD senza percorsi di formazione a monte per il personale docente impiegato (e per percorsi di formazione non si deve intendere “corsi di aggiornamento”, ma integrazione delle carriere universitarie con acquisizione di crediti specifici sul tema, che possano passare dalle regole base di utilizzo degli strumenti informatici, fino a un nuovo tipo di pedagogia digitale), non può esistere DaD senza una piattaforma unica e nazionale, con chiari criteri di accessibilità, con la tutela della sicurezza informatica degli attori coinvolti, con la definizione di linee guida che prendano in considerazione non soltanto la distribuzione oraria di DaD e DDI, ma anche la creazione di contenuti specifici. Corsi, video-lezioni, strumenti di valutazione standard che – con il sistema della didattica a distanza – potrebbero avere il vantaggio di sfruttare il meglio della didattica e della professionalità italiana da distribuire in tutte le scuole, da nord a sud. La sensazione è che questi altri 300 milioni di euro, senza una visione di scuola digitale, serviranno ai soliti scopi: corsi-tampone, qualche tablet in più e qualche abbonamento in più a piattaforme create al di fuori del Paese e basate su criteri di apprendimento che non ci appartengono.

FOTO: IPP/pool/esteri – Roma

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