Ma com’è lavorare in una talent factory? Il racconto di una giornata tipo

Sempre più spesso sentiamo i content creator citare le proprie agenzie per la gestione di qualsiasi attività che esuli dalla mera creazione di contenuti organici per i social network che si presidiano. Ma vi siete mai chiesti come sia lavorare in una società che lavora con i content creator? Ve lo raccontiamo in questo articolo

03/02/2023 di Giorgia Giangrande

È molto più probabile sentire i content creator parlare delle proprie agenzie che le agenzie parlare dei propri content creator. C’è una sorta di aura misteriosa che aleggia intorno alle più classiche agenzie di management o, in generale, intorno a quelle realtà che, soprattutto negli ultimi anni, hanno utilizzato le più disparate definizioni per descrivere il proprio modo di lavorare con il digital. Che poi, chissà perché ci preme così tanto dare a tutto una definizione. In ogni caso, che si tratti di un’agenzia di comunicazione, di una digital agency o di un’agenzia di comunicazione, la domanda non cambia: com’è lavorare all’interno di una realtà di questo tipo? Vi facciamo vivere la giornata tipo di Bang, la talent factory del gruppo Mosai.co.

Anzitutto, cosa si fa principalmente in una realtà di questo tipo? Nella maggior parte dei casi, le attività ruotano intorno alla mediazione tra content creator e clienti/aziende  che vogliono promuovere il proprio marchio, un determinato prodotto o una specifica campagna. Per una buona riuscita degli obiettivi, è importante che ci sia una sintonia tra il creator e il brand, che i contenuti social (post, reel, stories, tiktok) realizzati nell’ambito della collaborazione siano sì coerenti con quanto il cliente desidera, ma anche un po’ sorprendenti. Per fare la differenza e per guadagnarsi, perché no, il ritorno di quegli stessi clienti. Per questo servono creatività, puntualità, serietà e precisione.

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How the day starts

Forse, all’inizio di questo articolo avremmo dovuto avvisarvi con un disclaimer del tipo: si abuserà degli inglesismi in modo spropositato, chiediamo scusa ai puristi della nostra lingua. In queste realtà basate sul digitale, infatti, è molto semplice che si utilizzi un termine inglese per muoversi con agilità nelle varie comunicazioni che intercorrono tra i parlanti (o scriventi, visto che la maggior parte delle comunicazioni avvengono via mail).

Fatte queste premesse linguistiche, possiamo iniziare la giornata in una talent factory, che come altre realtà, si impegna a fornire ai content creator le migliori opportunità – commerciali, editoriali e, in generale, progettuali – mettendoli in contatto con i clienti, brand e aziende affini ai loro profili. Ogni mattina, il lavoratore di una realtà di questo tipo si reca in ufficio e sa che entro le 11:00 c’è quel contenuto da inviare in approvazione a quel cliente che ha dato una deadline talmente stringente che tu, nel comunicarla al tuo creator, hai dovuto fare dei voli pindarici tra il «per favore», il «gentilmente» e il «ho fatto il possibile per posticiparla».

Ogni mattina il lavoratore di una digital agency si sveglia, si reca in ufficio e sa che, anche se il giorno precedente non c’era più nessuna mail da leggere, al mattino ce ne saranno almeno una ventina «da smazzare» e almeno cinque chat su Whatsapp da «prendere in carico». Dopo un paio di ore  passate a digitare le tue comunicazioni in modo chiaro, preciso e gentile, puoi finalmente prendere fiato, ma il promemoria di Outlook ti ricorda di una call tra 5 minuti. E se il minuto di plank in palestra ti sembra duri un’infinità, invece, quei 5 minuti a lavoro passeranno talmente veloci da farti lasciare in sospeso quell’azione appena cominciata. Devi entrare in call.

How the call goes

A questo punto, il tuo cervello è talmente focalizzato nell’interazione con una macchina – il computer – e i tuoi occhi così abituati all’interfaccia di quel device che, adesso, sentire la voce di qualcuno ti provoca nei primi istanti un effetto a tratti straniante.

Vivere una realtà che lavora con i creator e con clienti che ai primi si rivolgono per promuovere l’immagine dei propri brand vuol dire, anche, lavorare con le persone, prima ancora che con «creator» e «clienti». Quindi, quando da una mail si passa a uno scambio telefonico, sono necessarie quelle competenze che in inglese vengono definite «soft skills»: comprendere le ragioni dei propri interlocutori, percepirne le intenzioni, anticiparle e portare ogni obiettivo a compimento, sempre e nonostante gli imprevisti.

Finita la call, si torna al proprio desk (postazione), perché altri task (mansioni) ti attendono: l’organizzazione di un Gantt (uno strumento di supporto alla gestione dei progetti); la scrittura di alcuni testi creativi; la trasformazione di un’idea in qualcosa di tangibile; l’invio in approvazione di un nuovo contenuto; il monitoraggio delle performance; l’interpretazione di un dato; il suggerimento di una strategia idonea.

How to be Bang

Quando la giornata sta per finire, i task sono quasi tutti completati e, tra le riunioni in programma, è rimasta soltanto l’ultima, il lavoratore di una talent factory sa che può aver fatto la differenza, nel piccolo per il grande. Per offrire a chi ha idee, passione e serietà un supporto che sia all’altezza delle loro idee, passione e serietà. Perché se idee si offrono, idee sorgono. Se passione ci si mette, passione si riceve.

Se si è seri, con serietà si lavora. Il lavoratore di una realtà come quella di Bang, la talent factory di Mosai.co, magari quando esce dall’ufficio e qualcuno gli pone la domanda «che lavoro fai?» ci mette un po’ a rispondere; se invece qualcuno domandasse: «sei fiero del lavoro che fai?», la risposta sarebbe secca. E quest’ultimo è un botta e risposta che non conosce epoche, tempi, mestieri, evoluzioni né trasformazioni digitali.

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