Campi di detenzione e rieducazione: i documenti che imbarazzano la Cina

Una serie di “leak”, informazioni riservate sfuggite al controllo del governo cinese, mettono in imbarazzo Pechino. Secondo i documenti ottenuti e diffusi dall’International Consortium of Investigative Journalists , le autorità cinesi avrebbero realizzato imponenti centri di detenzione e “rieducazione” per almeno un milione di membri della minoranza islamica che vivono nel cuore del gigante asiatico. E la minoranza, al quale questi centri sembrerebbero diretti è quella degli “Uguri”, etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord ovest della Cina. Un’etnia con la quale Pechino combatte informalmente da anni una guerra per frenare le spinte separatiste che interessano l’area.

Chi sono gli Uguri e perché la Cina reprime la loro cultura

Secondo quando riportato da Bloomberg: la popolazione ugura è sotto stretta sorveglianza da anni: con i residenti costretti a sottoporsi al riconoscimento facciale digitale per entrare nei mercati o nelle stazioni. Per i dipendenti pubblici sono vietate le barbe lunghe e per i bambini i nomi di origine religiosa. Non sono inoltre consentiti cambi di orario lavorativo durante il mese di Ramadan. Secondo quanto riporta il Guardian, nel corso del 2009 circa 200 cinesi di etnia Han (il gruppo etnico maggioritario nel Paese, di cui fanno parte oltre il 90% dei cinesi) sono morti durante scontri nella capitale della regione, Urumqi. Molti avrebbero perso la vita in seguito ad attacchi terroristici avvenuti in varie città dello Xinjiang. Tra gli uguri, inoltre, si troverebbero anche “Foreign fighters”, inclusi combattenti che hanno preso parte alla costituzione e alla difesa del cosiddetto “Stato Islamico”.

Perché si parla di “centri di rieducazione”

La parola “rieducazione” riporta indietro di anni le lancette della storia a periodi non proprio esaltanti del ‘900. Eppure i giornalisti che hanno visionato i documenti riservati di Pechino utilizzano proprio questo termine. Nei “leaks” sono infatti elencati una serie di caratteristiche che questi centri devono possedere. In primis si deve puntare sul controllo fisico e mentale degli individui che devono essere monitorati h24 dai sorveglianti. Ma non solo, i “campi” sarebbero basati su un sistema di punti in cui si verifica “la trasformazione ideologica” , l'”aderenza alla disciplina”, così come l’impegno nello studio e nell’educazione dei detenuti. La detenzione sarebbe di almeno un anno e si dividerebbe in centri focalizzati sulle abilità linguistiche (cinese-mandarino) e l’ideologia, e altri focalizzati invece sulle “abilità lavorative”. Mentre la sorveglianza  della popolazione sarebbe anche digitale. Un esempio? In uno dei bollettini resi pubblici, si discute della possibilità di analizzare i dati di quasi 2 milioni di abitanti dello Xinjiang attraverso una app. Circa 40mila persone sono state considerate potenzialmente pericolose, esclusivamente sulla base dei dati raccolti grazie a questa app.

La difesa di Pechino

Incalzata dalle evidenze delle foto dei satelliti, la Cina non nega dall’esistenza dei centri, ma nega fermamente che si possa parlare di coercizione e rieducazione.

Le autorità di Pechino si difendono sottolineando che i campi di “detenzione” sono in realtà dei centri per la prevenzione del terrorismo e che sarebbero su base volontaria.  La libertà religiosa sarebbe garantita in tutto lo Xinjiang, mentre i “detenuti” sarebbero liberi di tornare a casa. I documenti, di cui i giornalisti occidentali sono venuti in possesso insomma, sarebbero in realtà “artefatti”. L’insostenibile leggerezza del termine “fake news”.

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