Ahmadreza Djalali: storia del ricercatore iraniano dell’università di Novara condannato a morte

Si chiama Ahmadreza Djalali ed è un medico 45enne iraniano. Ha solo due settimane, due, per salvarsi da una condanna a morte. Da mesi è detenuto in Iran. Ahmadreza lavorava a Novara. Durante il suo dottorato in Svezia l’uomo è stato assegnato al «Centro di ricerca interdipartimentale in medicina dei disastri» (Crimedim) dell’Università del Piemonte Orientale. Con moglie e figli in Svezia ha tenuto sempre rapporti sia in Italia che con il suo paese natale, l’Iran, dove si recava periodicamente per tenere alcuni workshop universitari. L’ultimo invito lo ricevette dall’università di Teheran. Ma da quel viaggio Ahmadreza non è più tornato.

LA SCOMPARSA DI AHMADREZA DJALALI

Ad aprile il dottore doveva presentarsi per un incontro a Novara. La sua assenza ha insospettito i colleghi di «Crimedim», con cui il medico ha collaborato come assegnista di ricerca (e continuava ancora collaborare) dal 2012. Quando fu contattata la famiglia fu detto che Djalali aveva avuto un grave incidente stradale ed era in coma. Non era vero nulla. All’inizio la famiglia non ha denunciato la cosa per paura di ritorsioni. «Un poliziotto ha chiamato la mia famiglia a Teheran – ha spiegato la moglie del medico al Corriere – avvertendo che non dovevo parlarne, e io temevo di danneggiare la situazione. Ma non posso più tacere: ieri Ahmad ha chiamato sua sorella, le ha detto che sarà giustiziato con l’accusa di collaborazione con Paesi nemici. Pensano che sia una spia. Ma è solo un ricercatore».

AHMADREZA DJALALI: STORIA DI UN MEDICO CONDANNATO A MORTE IN IRAN

Nell’ottobre del 2016 la moglie racconta tutto ai colleghi italiani di Djalali. «Ci dice che è stato arrestato senza una accusa reale ed è stato costretto a firmare una confessione», racconta Luca Ragazzoni, collega del medico iraniano, contattato da Giornalettismo.

All’inizio Ahmadreza Djalali aveva un legale. Un avvocato che ribadiva l’innocenza del suo assistito perché non vi era prova alcuna. Il medico risultava accusato di collaborazione con stati nemici e spionaggio. Doveva subire regolare processo questo gennaio. Ma nel dicembre 2016 la situazione precipita. Annullano il processo e viene rimpiazzato il legale. Arriva un avvocato d’ufficio. Il medico inizia lo sciopero della fame. La famiglia viene a conoscenza di un nuovo processo, tra due settimane: pena, l’esecuzione con impiccagione.
Djalali non mangia più. Ha perso 18 chili. Ma la sua famiglia e i suoi colleghi (anche italiani) non si arrendono. Ahmad non è una spia. La sua missione era ed è solo quella di migliorare gli ospedali nei paesi colpiti da terremoti e altri disastri. ha partecipato ad un progetto finanziato dall’Unione Europea (sulla gestione di emergenze radiologiche, chimiche e nucleari) con colleghi israeliani e sauditi.
Oramai è una corsa contro il tempo. I suoi colleghi stanno agendo su due fronti. Il primo quello governativo, con Italia e Svezia in prima linea. Il secondo attraverso la rete e i social dove è stata lanciata una petizione su Change.org e una pagina Facebook che aggiorna sul caso. Iniziano ad uscire i primi articoli, anche in Belgio.
«Abbiamo paura», spiega Luca. Il giudice che dovrà decidere sulla vita del medico è già noto per la sua facilità nel condannare a morte gli oppositori politici in Iran.

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