Gli utenti che utilizzano la funzione “blocco” e le implicazioni sulla sfera emotiva nell’utilizzo dei social
A volte, un blocco può essere terapeutico. Perché si tratta di una funzionalità importante per qualsiasi tipo di social network o di app di messaggistica istantanea
21/08/2023 di Gianmichele Laino
Oggi, buona parte della nostra vita emotiva si svolge non soltanto in ambienti offline, ma anche online. Nel corso del lockdown del 2020, anzi, per chi non ha avuto la fortuna di condividere uno spazio con un congiunto, la vita emotiva digitale era l’unica possibile. Con una conseguente incidenza, soprattutto tra i più giovani, nell’esasperazione delle diverse sfumature dell’ampio fenomeno degli hikikomori. Va da sé che le regole del bon ton online si accompagnano, di pari passo, a delle funzionalità tecniche che i social network mettono a disposizione. Come rispondere, come non rispondere, come seguire un personaggio di interesse, come defollowarlo o – addirittura – come bloccarlo. Nel Galateo dei social network quest’ultima azione risponde a delle esigenze ben specifiche: quando una persona ha un modo di fare aggressivo, invadente, al limite della molestia; quando si configura una vera e propria molestia (invio di immagini dei luoghi in cui si abita, delle persone che si frequentano, ecc); ma anche quando, più semplicemente, quella persona non può andare d’accordo con noi per il suo modo di pensare. Il fatto che Elon Musk abbia annunciato una profonda revisione del tasto “blocca” su Twitter/X va a influire inevitabilmente su quella che – ahinoi – dobbiamo considerare ormai come sfera emotiva digitale.
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Perché è utile il blocco social, che impatto hanno gli utenti che fanno questa operazione
Non solo Twitter, ma anche social di maggiore “contatto” come Facebook o Instagram, per non parlare delle app di messaggistica istantanea come WhatsApp. Ci sono diverse possibilità di blocco e diversi motivi che portano gli utenti delle piattaforme a farlo. In casi di relazioni tossiche (anche di carattere digitale), il blocco non è solo un modo per impedire alla persona di continuare a infastidire, ma è anche una soluzione – per l’utente che ha bloccato – di evitare nuovamente di cadere in dinamiche relazionali che possono essere sbagliate. Perché, infatti, se intendiamo “chiudere” una relazione – sebbene virtuale – poi si è tentati sempre nell’andare a controllare l’attività dell’altra persona? Bloccare un utente, dunque, può essere una sorta di terapia anche per se stessi.
Twitter non è un social network relazionale a un livello intimo come può esserlo Instagram (chi è che – oggi – chatta attraverso i DM del social network di Elon Musk per poter approfondire una conoscenza?), ma la dinamica può essere considerata valida se alla sfera degli affetti si sostituisce quella delle opinioni. Perché alzare continuamente il livello dello scontro – ovviamente nei casi in cui il dialogo non porta a soluzioni, ma solo a insulti e improperi – invece che metterlo a tacere eseguendo una semplice azione che agevola il troncamento di qualsiasi discussione?
L’esposizione pubblica, tra l’altro, che Twitter garantisce (che va oltre la semplice sfera degli affetti e delle conoscenze: il sistema degli hashtag – ma vale anche per i Per Te dei reels di Instagram o dei video di TikTok – ti mette su un palcoscenico dove ognuno è pronto a lanciarti pomodori o mazzi di fiori) influisce sull’autostima. Il blocco di chi, palesemente, si comporta da troll (o troll lo è per davvero) evita l’addensarsi di complessi e di quel sentimento di inadeguatezza che accompagna le offese. Possibile che, ormai, i gestori dei social siano diventati tanto cinici da non prevederlo?