La sentenza del Tar su Report è una violazione alla libertà di stampa?
I giudici del tribunale amministrativo hanno dato ragione all'avvocato Andrea Mascetti, professionista che orbita nell'area della Lega, dandogli il permesso di accedere agli atti che sono nelle mani (e sono stati mandati in onda a ottobre) dalla trasmissione di Ranucci
20/06/2021 di Enzo Boldi
La libertà di stampa, la tutela delle fonti riservate e la sentenza del Tar “contro” Report. Nella giornata di ieri, in seguito alla pubblicazione della sentenza del Tribunale Amministrativo nei confronti della Rai e della nota trasmissione d’inchiesta di RaiTre, si è scatenato un vespaio di polemiche. I giudici, infatti, hanno accolto il ricorso presentato dall’avvocato Andrea Mascetti in merito a un servizio (con testimonianze di persone che hanno chiesto di mantenere l’anonimato) mandato in onda lo scorso mese di ottobre sulla gestione di alcuni appalti in Lombardia. Il legale coinvolto in questa vicenda – ancora tutta da valutare – è molto vicino alla Lega e ad Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia. Ora, secondo i giudici amministrativi, la testata Rai viene equiparata un’azienda della Pubblica Amministrazione e deve consentire l’accesso agli atti nelle mani della trasmissione e alle fonti che hanno chiesto di rimanere riservate. Si tratta di violazione della libertà di stampa o di atto lecito e dovuto?
LEGGI ANCHE > La diffida di Raiola a diffondere le conclusioni di Report non è essa stessa una notizia?
Tutto è partito da un’inchiesta realizzata da Giorgio Mottola per Report e mandata in onda su RaiTre lo scorso 26 ottobre (qui il servizio completo). Si parla di gestioni degli appalti in Lombardia e, tra gli altri, viene citato anche l’avvocato Andrea Mascetti. Ovviamente, al momento, non ci sono indizi giudiziari di colpevolezza nei confronti del legale vicino alla Lega, ma la richiesta e l’ottenimento (con la sentenza del Tar) dell’accesso agli atti nelle mani del programma Rai non può che far emergere un vulnus.
Innanzitutto per la gestione del caso da parte dei giudici del tribunale amministrativo. Per capire a cosa stiamo facendo riferimento, ci rifacciamo al pensiero espresso da Giuseppe Giulietti, Presidente della Federazione Nazionale Stampa Italiana: «Equiparare la Rai ad una qualunque altra amministrazione pubblica per aggirare la tutela delle fonti dei giornalisti de il relativo segreto professionale rappresenta una palese violazione delle sentenze della Cedu e della nostra Costituzione». Parole che non vanno a toccare un tema fondamentale. Leggendo il testo della sentenza del Tar del Lazio, infatti, appare evidente come Report e la Rai non siano state “trattate” come testate giornalistiche, ma equiparate a un’azienda della pubblica amministrazione. Questa mossa, infatti, ha permesso di convalidare il ricorso e l’approvazione delle richiesta di accesso agli atti.
Report e la sentenza del Tar: e la libertà di Stampa?
Qualora si fosse parlato di testata giornalistica, infatti, la procedura sarebbe stata molto più complessa. Perché la tutela delle fonti, nel mondo del giornalismo, non è solamente un principio figlio di un accordo verbale tra chi racconta alcuni fatti e il cronista professionista che li contestualizza e li riporta in un suo articolo, servizio o inchiesta. Si tratta, infatti, di uno dei principali principi deontologici. Leggiamo, infatti, uno dei commi inseriti nella legge 69/1963:
Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori.
Quindi sia giornalisti (in questo caso quelli di Report) che editori (in questo caso la Rai) devono rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie. Questo vuol dire che non si può svelare l’identità (né anagrafica, né fisica) dell’eventuale persona che fornisce determinate informazioni e chiede di rimanere riservata. Il tutto viene ribadito anche all’interno del Testo Unico dei doveri del giornalista del 1993. All’articolo 9, infatti, troviamo scritto che il giornalista:
rispetta il segreto professionale e dà notizia di tale circostanza nel caso in cui le fonti chiedano di rimanere riservate; in tutti gli altri casi le cita sempre e tale obbligo persiste anche quando si usino materiali – testi, immagini, sonoro – delle agenzie, di altri mezzi d’informazione o dei social network.
Oltre il giornalismo: cosa dice il codice penale
Altro tema da inserire all’interno di questa vicenda è il confronto tra le carte professionali del mondo del giornalismo e il codice penale italiano. Come spiega Altalex, infatti, ci sono alcuni casi in cui la tutela della segretezza delle fonti giornalistiche potrebbe venir meno (sempre basandosi su pronunciamenti giudiziari, in fase di indagine). Ed è così che troviamo l’articolo 622, comma I, del codice penale che recita:
Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 30 a euro 516.
Ci sono dei “ma”. Come indicato nell’articolo 200 del codice di procedura penale, i giornalisti non possono essere obbligati (in fase processuale) a deporre su quanto sono venuti a conoscenza nella realizzazione della propria inchiesta. Stesso discorso, dunque, si estende alla riservatezza delle fonti. E, opponendosi, non commette alcun reato. Come indicato dall’articolo 371 bis (e non 761 bis, come erroneamente scritto in precedenza) del codice penale. Ovviamente l’accesso alle fonti può essere richiesto in caso di eventi gravi, ma i giornalisti e gli editori non sono tenuti (cioè obbligati) a fornire dettagli.
Il ricorso al Consiglio di Stato
Tutto questo discorso, con riferimenti normativi, riguarda il mondo del giornalismo e delle testate. Se i giudici del Tar, però, hanno valutato la televisione pubblica come un’azienda della Pubblica Amministrazione e non come una testata giornalistica (o un editore) la musica cambia. Per questo motivo la Rai ha già annunciato il ricorso al Consiglio di Stato per tutelare l’onorabilità di tutti i suoi dipendenti coinvolti (ma non costituiti in giudizio) nella vicenda che, da ieri, ha sollevato un polverone di polemiche. In tutto questo rientra anche il macro-tema della libertà di stampa che, tra i suoi precetti deontologici, deve anche tutelare la sicurezza e l’anonimato delle fonti che intendono rimanere segrete. Sta di fatto che la sentenza del Tar nei confronti della televisione pubblica e di Report, la nota trasmissione di inchieste targata RaiTre, ha messo in evidenza alcuni fattori non noti al grande pubblico. Le sentenze si rispettano, ma ora sarà il più alto grado di giudizio (anche) amministrativo a valutare se la decisione dei “colleghi” del Tar sia stata corretta o abbia leso la libertà di stampa.