Perché le firme digitali per i referendum non sono «cliccocrazia», come dice il Giornale

Duro attacco della testata all'identità digitale che permette di raggiungere in maniera più agevole la quota di 500mila firme per presentare il quesito referendario

20/09/2021 di Gianmichele Laino

Sono bastate due raccolte firme digitali (eutanasia legale e cannabis legale) per raggiungere le 500mila firme previste dalla Costituzione per depositare presso la Cassazione il quesito referendario (in attesa dell’iter burocratico che porterà, salvo intoppi, a consultare i cittadini nella primavera del 2022) per far scatenare una sorta di istinto reazionario di una parte della stampa italiana. Il Giornale di oggi, infatti, titola Cliccocrazia a proposito dei referendum che potranno essere organizzati grazie al passaggio decisivo dell’emendamento in Gazzetta Ufficiale del 12 agosto 2021 (emendamento che è stato valutato con attenzione anche dagli esponenti dell’attuale governo) e che prevede che la firma per raggiungere la fatidica soglia di 500mila possa essere raccolta anche in formato digitale, grazie allo SPID.

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Il Giornale contro firme digitali, la teoria

Secondo il quotidiano fondato da Indro Montanelli, infatti, la possibilità di raccogliere in formato digitale le firme per i referendum consentono l’assassinio della democrazia parlamentare, grazie ai social network. Nell’articolo che accompagna questa riflessione, inoltre, si sottolinea come questo aspetto altro non sia che una conseguenza della democrazia digitale del Movimento 5 Stelle e del loro continuo tentativo di consultare i cittadini per ogni decisione politica (lo hanno fatto, fino a questo 2021, sulla piattaforma Rousseau, sulla quale – lo ricordiamo, visto che ormai è stata mandata in pensione da un altro sistema – venivano decisi persino i nomi dei candidati da inserire nelle liste).

In realtà, la teoria de Il Giornale regge poco. La raccolta delle firme in formato digitale sicuramente favorisce – in linea di principio – un aumento dei quesiti referendari (e lo dimostra anche quello promosso da Alberto Bagnai della Lega, che punta ad abolire il Green pass). Ma sicuramente non va in contrasto con i principi della Costituzione che, nonostante sia stata scritta ben prima dell’avvento di internet, sembra avere anticorpi anche nei confronti di eventuali abusi delle firme digitali per indire il referendum. Il fatto che un quesito referendario venga approvato e sottoposto a votazione, infatti, non implica automaticamente che la volontà popolare sorpassi quanto previsto dal parlamento. Il quorum perché un referendum vada a buon fine resta del 50%+1 dei votanti e la consultazione avverrà sempre e comunque in maniera tradizionale, ai seggi, secondo regole e tradizioni consolidate. Inoltre, il parlamento – nella sua attività legislativa – potrà essere maggiormente spronato da un ulteriore elemento di pressione: le raccolte firme di successo – che dovessero andare ben al di là delle 500mila firme necessarie per indire un referendum – dimostrano chiaramente come una parte della popolazione ritenga indispensabile un dibattito politico intorno al tema per il quale si sta firmando.

Perché la firma digitale prende atto di una democrazia rinnovata

Semplicemente, la firma digitale prende atto – anche in politica – che la società attuale non può fare a meno delle risorse tecnologiche, della connessione, di una burocrazia più snella. Del resto, se l’identità digitale può essere utilizzata agevolmente per incassare un bonus, per quale motivo non dovrebbe essere impiegata per mettere una firma a una proposta di referendum? Per questo la differenza con la “democrazia diretta” del Movimento 5 Stelle è molto pronunciata. L’accesso alle votazioni dell’ex piattaforma Rousseau – oltre che meno inclusivo (potevano partecipare alle votazioni soltanto gli iscritti al Movimento) – era molto meno selettivo, non basandosi su un processo affidabile come quello dello SPID e dell’identità digitale. Insomma, demonizzare la digitalizzazione della democrazia sa tanto di antico regime.

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