Le interazioni di Google con gli editori e il tentativo di avvantaggiarsi rispetto al mercato pubblicitario

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Il caso delle multe in Francia, ma anche delle azioni intentate da alcuni editori negli Stati Uniti. Un monopolio certificato, così come le accuse di abuso di posizione di dominante

Non è tutto oro quello che luccica. Da qualche anno, Google ha iniziato le sue interazioni con moltissimi editori nel tentativo di trovare un accordo commerciale per quel che riguarda le notizie da pubblicare all’interno della piattaforma News Showcase. Un progetto – avviato nel 2020 – che promette di ospitare solamente informazioni verificate. Ma a che prezzo? Non per l’utente, ma per le testate. L’ultimo caso di questo lungo puzzle è rappresentato dall’accordo siglato tra Alphabet Inc. (la holding che gestisce l’azienda del famoso motore di ricerca) e il New York Times: 100 milioni di dollari (in tre anni) per le news e altri aspetti di tipo commerciale. Perché proprio la pubblicità è l’anima del commercio e Google lo sa bene. Così come chi, nel corso del tempo, l’ha multata.



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Partiamo dal caso più emblematico in Europa, quello della Francia che – recependo per prima la direttiva UE sul diritto d’autore – ha fatto valere le ragioni della legge più volte nei confronti del gigante di Mountain View. Era il maggio del 2020, quando Google annunciò di aver firmato un protocollo d’intesa con diversi grandi attori del mondo editoriale transalpino. Da lì erano iniziate le interazioni (delle trattative) con la Alliance de la presse d’information générale che rappresenta circa 300 testate che operano nel Paese. Quando l’accordo sul compenso stava per andare in porto, tutto venne interrotto.



Secondo l’Antitrust francese, l’azienda Big Tech avrebbe dovuto comunicare l’insieme dei redditi (sia quelli diretti che quelli indiretti) derivanti dalla “pubblicazione” dei contenuti giornalistici e di informazione. Ne nacque un contenzioso con una multa dal 500 milioni di euro (per non aver risposto in “maniera soddisfacente” alle richieste) che Google – dopo aver annunciato ricorso – decise di pagare. Anche perché, altrimenti, sarebbe scaturita un’ulteriore sanzione pari a 900mila euro al giorno. Ma si è andati oltre alla mera sanzione, perché nel rapporto Google-editori francesi qualcosa sembra essere cambiato. L’azienda di Mountain View, infatti, si impegna a comunicare alle realtà editoriali alcune statistiche per monitorare l’andamento dei clic ai siti (partendo dal motore di ricerca) fino agli introiti pubblicitari.

Google editori, storie tese sul mercato pubblicitario

Ovviamente, questo è un primo passo. Parziale anche a livello geografico. I dati che l’azienda ha comunicato agli editori non sono sempre soddisfacenti, ma la strada del compromesso sembra essere un punto focale. Anche perché, l’applicazione in toto della direttiva UE sul copyright del 2019 prevede esattamente questo tipo di responsabilità da parte delle aziende Big Tech (quindi non solo Google) nei confronti degli editori. L’inserimento dei concetti di “equo compenso” e diritti connessi è entrato all’interno delle dinamiche annuali dei rapporti tra queste realtà. E sullo sfondo, ovviamente, c’è anche il tema del mercato pubblicitario.



Il caso emblematico è quello del New York Times, ufficializzato (senza dettagli) a febbraio e di cui si conoscono parti dell’accordo (tra cui i 100 milioni da euro in tre anni) solo nei giorni scorsi, grazie a una rivelazione del Wall Street Journal. L’ambizione, infatti, è quella di intercettare il mercato della pubblicità digitale, con l’azienda di Mountain View che da anni è al vertice di tutto ciò. Leggendo tra le righe dell’accordo, infatti, il NY Times spiega che questa intesa non prevede solamente l’ingresso della testata all’interno della piattaforma Google News Showcase, ma anche l’utilizzo degli «strumenti di Google per il marketing e la sperimentazione di prodotti pubblicitari». Dunque, spazi ed introiti derivanti dalla pubblicità. Facendo un piccolo passo indietro, quindi tornando alla Francia, l’Antitrust ha imposto al gigante Big Tech di comunicare ogni anno i clic derivanti dal motore di ricerca e gli introiti pubblicitari. Questo secondo aspetto è un parametro fondamentale per definire l’equo compenso da versare agli editori per pubblicare (e rendere disponibili) i propri contenuti online (sulle piattaforme di Google).

Fattori di cui si discute da tempo negli Stati Uniti. Nel settembre del 2012, come racconta l’USPI (Unione Stampa Periodica italiana), l’accordo generale tra la stampa a stelle e strisce e Google è stato frenato da alcuni editori che hanno denunciato clausole nel contratto poco trasparenti e troppo vincolanti per il mercato digitale. Il primo punto è il compenso non equo (quello sui diritti connessi), il secondo è una clausola che vieterebbe alle testate di monetizzare attraverso altri canali. Dunque, una stretta troppo forte per trovare un accordo soddisfacente. E nel gennaio di quest’anno, il Dipartimento di Giustizia americano (insieme a otto Stati) hanno avviato una causa contro Google. Con queste motivazioni:

«Google abusa del suo potere monopolistico per svantaggiare gli editori di siti web e gli inserzionisti che osano utilizzare prodotti di tecnologia pubblicitaria della concorrenza alla ricerca di risultati di qualità superiore o a basso costo […] Google ha ostacolato una concorrenza significativa e scoraggiato l’innovazione nel settore della pubblicità digitale, ha preso per sé profitti superiori alla concorrenza e ha impedito al mercato libero di funzionare in modo equo». 

Diventa, dunque, impossibile scindere l’aspetto del mercato pubblicitario dalle interazioni Google-editori. Ovviamente, la situazione è in fieri e un’eventuale sanzione nei confronti del colosso di Mountain View potrebbe avere ripercussioni su tutto l’ecosistema Big Tech che detiene quasi l’intera totalità della rete (almeno quella frequentata dal cittadino medio). Però, c’è un aspetto non secondario. Nel 2022, per la prima volta a partire dal 2014 – come abbiamo spiegato in un nostro precedente approfondimento – il duopolio Google-Meta sul mercato pubblicitario digitale sembra essere agli sgoccioli. E nel 2023 il loro impatto duopolistico potrebbe non superare il 45%. Una cifra enorme, ma vista la storia recente è il sintomo di un possibile cambio di rotta. A meno che gli accordi con gli editori non ripristino quello status quo che va avanti da quasi un decennio.