«Da specializzanda, ho il timore di non essere messa nelle condizioni di svolgere il mio lavoro»

Il racconto di una specializzanda italiana che ci ha spiegato le difficoltà che ha incontrato nel suo percorso per diventare medico

06/05/2024 di Redazione Giornalettismo

Non sono solo i giovani medici ad allontanarsi dalla professione; anche tra gli specializzandi di medicina, infatti, si è manifestata negli ultimi anni una disaffezione causata da molteplici fattori. Come ha confermato Bruno Zuccarelli, si tratta di una vera e propria “diaspora”, che porta numerosi medici ad abbandonare la professione in ogni fase della loro carriera, e che parte proprio dal periodo della formazione. La fuga dei giovani medici ha origine anche da questo.

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Abbiamo chiesto a una specializzanda di Otorinolaringoiatria, G.S., attualmente in forze in una struttura ospedaliera del Nord Italia, di raccontarci la sua esperienza fino a oggi. «Avrei voluto scegliere una specializzazione chirurgica, perché il mio desiderio più grande era operare. Ma sapevo che alla fine la direzione da prendere non me l’avrebbe indicata la mia vocazione, bensì tutta una serie di altri fattori che avrebbero pesato più di quello che volevo: il punteggio della prova d’esame, le regioni in cui avrei dovuto trasferirmi, i posti per gli specializzandi in ogni reparto, le esperienze di quelli che si erano specializzati prima di me. Ho cominciato a raccogliere informazioni mesi prima della laurea, nonostante stessi preparando la tesi, terminando un tirocinio, studiando per gli ultimi esami. Mi sono iscritta a gruppi e chat sui social dove gli specializzandi condividevano le proprie esperienze nelle strutture ospedaliere, raccontavano pro e contro di ogni città, di ogni medico che ci avrebbe seguito, di ogni reparto. È stato estenuante, anche perché non potevo sapere quali opzioni avrei avuto fino ai risultati del test».

Fuga giovani medici, il racconto di una specializzanda

Per stabilire tra quali specializzazioni lo studente può fare la sua scelta, infatti, viene stilata una graduatoria basata su un apposito test a cui i neolaureati vengono sottoposti; alcune specialità, le più ambite, possono essere selezionate solo al raggiungimento di una soglia di punteggio. Il numero di posti nelle scuole di specializzazione, ad oggi, è inferiore agli studenti che si laureano ogni anno, e chi non passa il test rischia di finire nel cosiddetto “imbuto formativo” che le istituzioni che si occupano di politica sanitaria paventano da anni. Una pletora di “camici grigi”, laureati in Medicina che, non potendo concludere il loro percorso di formazione obbligatorio, rimangono in un limbo che può protrarsi per anni: uno, almeno, da occupare con lavori che nulla hanno a che fare col proprio percorso di studi; ma si tratta della migliore delle ipotesi. Possono essere due anni nel caso che non si rientri al primo tentativo; possono essere di più se si tenta di scalare la graduatoria per avere la possibilità di dedicarsi alla disciplina di prima scelta. A quelli che non riescono a ottenere il risultato desiderato rimangono opzioni limitate: specializzarsi in una disciplina che non interessa, o interessa meno di quella per cui hanno intrapreso gli studi; tentare di nuovo, perdendo un altro anno; rinunciare alla professione medica, magari seguendo il percorso tracciato dal caso durante la stasi nell’imbuto formativo; andare a specializzarsi all’estero e spesso rimanere a lavorare fuori dai confini nazionali anche in seguito, portando all’estero risorse formate con il denaro pubblico e lasciando il Servizio Sanitario Nazionale ulteriormente sguarnito di risorse umane.

I rischi della professione

E nonostante i posti nelle scuole di specializzazione siano meno dei laureati alla facoltà di medicina, alcune discipline hanno perso del tutto la loro attrattività, tanto che i concorsi per le nuove assunzioni vanno deserti: troppo stress, troppe ore di lavoro per una retribuzione non adeguata. Troppi rischi di contenzioso legale, anche se il mercato ha iniziato a offrire soluzioni ad hoc a un prezzo sostenibile, come spiegato da DBDG Insurance Broker che, per questo particolare aspetto, rappresenta un punto di riferimento nel settore. Ovviamente, occorre sottolinearlo, la situazione non è così per tutti: «Rispetto ad alcuni colleghi che hanno scelto la specializzazione seguendo principalmente la loro vocazione mi sento incredibilmente fortunata. Nonostante passi in reparto buona parte della mia giornata, ho degli orari abbastanza regolari e i livelli di stress non si avvicinano nemmeno lontanamente a quelli di chi lavora in emergenza-urgenza o di chi lavora come anestesista, per fare due esempi. Però mi rendo conto di aver sacrificato qualcosa: come dicevo, la mia aspirazione sarebbe stata una specializzazione che prevedesse i cosiddetti ‘grandi interventi chirurgici’, e a quella ho dovuto rinunciare. Tuttavia, mi sento fortunata perché credo che il percorso di carriera che mi si prospetta davanti sia sostenibile anche nel lungo periodo, mentre confrontandomi con colleghi che hanno scelto altre specializzazioni ho avuto conferma che non per tutti è così. Dopo sei anni di università, quattro di specializzazione e quelli che saranno necessari per entrare appieno nel mondo del lavoro, pensare che dopo poco tempo potrei essere in burnout o decidere di cambiare professione per gli alti livelli di stress potrebbe distruggere la motivazione di chiunque. Io ho preso delle decisioni calcolando pro e contro di ogni scelta e sacrificando la mia ‘vocazione’, ma capisco perfettamente chi fa scelte diverse dalle mie». 

Gli altri timori

Ma la situazione non è comunque rosea, perché l’attività formativa che viene svolta in questo percorso di specializzazione sembra non essere sufficiente. «Certo che ho il timore di non essere in grado di svolgere il mio lavoro al termine del mio percorso formativo – ci racconta G.S. -. Quelli che lo hanno già terminato non sono stati messi nelle condizioni di lavorare in autonomia, non vedo perché per me dovrebbe essere diverso. Ma il problema non è solo con gli specializzandi, bensì con l’organizzazione del reparto in generale. Tra di noi, inoltre, c’è molta competitività e poca voglia di aiutare i meno esperti, e l’ambiente di lavoro ne risente. Quando provo a chiedere delucidazioni su qualche procedura generalmente mi viene risposto che dovrei già saperla fare. Per non fare brutte figure, ormai, ho preso l’abitudine di non chiedere, andare a casa e cercare le risposte nei libri dell’università».  

Non ci sono grosse alternative, se non quella di andare a specializzarsi all’estero, magari rimanendo là alla fine del percorso formativo. «Fin dal primo anno di università ho preso in considerazione l’idea di andare a lavorare all’estero, è una possibilità che mi affascina. Ma non parlo alcuna lingua straniera, quindi, per adesso, ho accantonato l’idea. Se però mi si prospettasse l’opportunità di lavorare davvero in chirurgia cercherei di coglierla a qualsiasi condizione, anche se magari questo dovesse significare riprendere a studiare, o dovermi trasferire all’estero; per il momento ho dovuto rinunciare alla mia vocazione, ma a quanto pare è ancora dentro di me da qualche parte». 

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