Cosa prevede il regolamento Agcom sull’equo compenso per gli editori

Il ricorso di Meta al Tar e la successiva richiesta dell'Autorità al Consiglio di Stato hanno riportato un caos che ha congelato le trattative

15/02/2024 di Enzo Boldi

Siamo arrivati alla paralisi totale e ci potrebbero volere moltissimi mesi (si parla, probabilmente, di un anno e mezzo) per trovare una soluzione. E la soluzione potrebbe rappresentare un clamoroso passo indietro, con una norma da riscrivere fin dalle sue basi legislative e poi tradotte in un nuovo Regolamento. Quel che sta succedendo all’equo compenso per gli editori – previsto dalla Direttiva europea sul Copyright – è emblematico di quanto sia complicata la gestione del corretto inquadramento (non solo a livello fiscale) dei grandi player di Internet.

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Il ricorso presentato, fin dalla presentazione del Regolamento, da Meta è stato valutato positivamente – nel mese di dicembre del 2023 – dal Tar del Lazio, con i giudici del Tribunale Amministrativo che hanno, di fatto, congelato gli effetti di quelle regole per impostare il tavolo delle trattative tra le piattaforme web e gli editori sull’equo compenso derivante dalla pubblicazione e condivisione di articoli giornalistici sui social (ma anche sui motori di ricerca). Tutto congelato, probabilmente fino a quando non arriverà la valutazione (richiesta proprio dal Tar) della Corte di Giustizia UE. Proprio per evitare questo rallentamento, Agcom ha presentato un contro-ricorso al Consiglio di Stato (ultimo grado di giudizio per quel che riguarda le decisioni “amministrative”), chiedendo di non rallentare i tempi. Perché l’orologio corre e con le trattative inevitabilmente sospese si rischia la paralisi totale e il mantenimento di uno status quo che non è in linea con la direttiva Copyright.

Equo compenso per gli editori, cosa dice il Regolamento

In attesa di capire come andrà a finire questa vicenda, delicatissima e fondamentale per tutto il mondo dell’informazione, facciamo un breve recap sul Regolamento Agcom sull’equo compenso per gli editori:

«Il regolamento individua come base di calcolo “i ricavi pubblicitari del prestatore derivanti dall’utilizzo online delle pubblicazioni di carattere giornalistico dell’editore, al netto dei ricavi dell’editore attribuibili al traffico di reindirizzamento generato sul proprio sito web dalle pubblicazioni di carattere giornalistico utilizzate online dal prestatore”. Su tale base, all’editore, a seguito della negoziazione, potrà essere attribuita una quota fino al 70%, determinata sulla base dei criteri predeterminati». 

I criteri validi per la valutazione dell’equo compenso da applicare cumulativamente e con rilevanza decrescente, individuati da Agcom, sono i seguenti:

  • numero di consultazioni online delle pubblicazioni (da calcolare con le pertinenti metriche di riferimento);
  • rilevanza dell’editore sul mercato (audience on line);
  • numero di giornalisti, inquadrati ai sensi di contratti collettivi nazionali di categoria;
  • costi comprovati sostenuti dall’editore per investimenti tecnologici e infrastrutturali destinati alla realizzazione delle pubblicazioni di carattere giornalistico diffuse online;
  • costi comprovati sostenuti dal prestatore per investimenti tecnologici e infrastrutturali dedicati esclusivamente alla riproduzione e comunicazione delle pubblicazioni di carattere giornalistico diffuse online;
  • adesione e conformità, dell’editore e del prestatore, a codici di autoregolamentazione (ivi inclusi i codici deontologici dei giornalisti) e a standard internazionali in materia di qualità dell’informazione e di fact-checking;
  • anni di attività dell’editore in relazione alla storicità della testata.

Questi sono i paletti. Ma di che cifre stiamo parlando? Non ci sono numeri consolidati, ma solamente percentuali entro le quali deve muoversi – secondo il Regolamento sull’equo compenso per gli editori – la trattativa tra le aziende che operano sul web e, per l’appunto, le testate o i gruppi. Nello specifico, la norma (che, ricordiamolo, si basa sulla Direttiva Copyright UE) prevede che la percentuale dell’equo compenso rientri in una forchetta tre il 2% e il 5% dei ricavi pubblicitari del prestatore del servizio (come, per esempio, Meta e le sue piattaforme). Ma la quota precisa è figlia di accordi individuali tra le parti, tenendo conto degli elementi individuato nell’elenco. Poi, c’è quell’elemento al centro delle contestazioni. Quel dettaglio che ha portato al ricorso di Meta al Tar, alla richiesta da parte del Tar del Lazio di una valutazione da parte della Corte di Giustizia UE e al contro-ricorso di Agcom al Consiglio di Stato: l’Autorità Garante nelle Comunicazioni può intervenire per definire l’equo compenso se il prestatore di servizio e l’editore non riescono a trovare un accordo.

Le criticità emerse in passato

Proprio nei giorni seguenti all’entrata in vigore del Regolamento sull’equo compenso per gli editori, Giornalettismo aveva intervistato Marco Scialdone – docente dell’Università europea di Roma e legale di Euroconsumers -, che ci aveva fornito un punto di vista molto critico che, per alcuni aspetti, rappresenta una delle contestazioni mosse da Meta al Tar e che il Tribunale Amministrativo del Lazio ha accolto:

«Il tema vero è che è proprio sbagliata la modalità con cui l’Italia ha recepito un diritto di esclusiva che viene trasformato in diritto a compenso. Il diritto sarebbe dovuto rimanere all’interno di una trattativa privata, senza l’intervento di un’autorità pubblica. Nessun altro Paese lo ha attuato come l’ha attuata l’Italia: l’Agcom si troverà a gestire delle problematiche non per colpa sua, ma per chi l’ha messa nelle condizioni di fare un lavoro che non avrebbe dovuto fare». 

Dunque, già all’epoca si parlava di come il ruolo di Agcom fosse eccessivamente invasivo durante le fasi di trattativa tra gli attori dell’ecosistema Internet (Meta, Google e gli altri) e gli editori. Ma un altro tema sul tavolo era stato posto da Elisa Giomi, l’unica Consigliera dell’Autorità ad aver votato contro quel Regolamento. A Giornalettismo, infatti, aveva espresso diverse perplessità, pur ribadendo la legittimità del ruolo di Agcom nel dirimere le questioni relative a intoppi a livello di trattativa tra le parti:

«Certo che l’Agcom doveva essere l’organo competente per facilitare le negoziazioni e dirimere le controversie in caso di mancato accordo, ma il timore è che, con il meccanismo attuale molto oneroso per le piattaforme (e per la vigilanza dell’Autorità), queste ultime potrebbero decidere che il gioco non vale più la candela, come già accaduto in Spagna con Google News che è stato chiuso per ben 8 anni, e più di recente in Repubblica Ceca. La possibilità di una mediazione efficace da parte di Agcom diventa quindi essenziale proprio considerando che il recepimento della direttiva fa dell’Italia un caso unico perché rende la negoziazione obbligatoria. Ma un conto è imporre l’obbligo di pagare un contenuto che si usa, e questo è corretto, un altro conto è imporre l’obbligo di “comprarlo”, cosa che va decisamente oltre le disposizioni della direttiva». 

Questo rischio potrebbe portare, come aveva sottolineato Giomi, le piattaforme ad abbandonare “le notizie” (cosa che in realtà, in parte, stanno già facendo, vedi il caso Instant Articles su Facebook). Ma la stessa Commissaria Agcom aveva messo in evidenza un’altra perplessità:

«Tecnicamente, il “value gap” non è un concetto giuridico, né una giustificazione economica e infatti non ve ne è menzione nella direttiva e neanche nella legge italiana di recepimento. Da qui derivano le potenziali distorsioni del regolamento, che paradossalmente potrebbe tradursi in un “compenso zero” per l’uso di articoli ai quali le piattaforme non associno spazi pubblicitari, cioè ricavi». 

Un altro aspetto, dunque, che fin dalle origini pareva essere piuttosto controverso.

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