A Non è l’arena Giletti è arrivato a chiedere a una vittima di Genovese «che tipo di dolore hai provato?»
Una doverosa riflessione sulle domande di Giletti alle vittime di Genovese e su cosa le donne debbano fare perché si creda loro
01/02/2021 di Ilaria Roncone
Spettacolarizzazione del dolore sempre, comunque e a tutti i costi. Nella puntata di ieri di Non è l’arena Giletti ha parlato con la vittima diciottenne di Genovese, la famosa ragazza rimasta bloccata in una stanza con lui per venti ore subendo violenze indicibili. Indicibili, appunto, ma che in Italia troviamo opportuno sondare in prima serata dando vita a dialoghi che dovrebbero svolgersi al riparo dei tribunali, con le vittime tutelate. Invece tutte le giovani donne ospiti di Giletti hanno avuto come solo riparo il fatto si essere di spalle, ospiti di quel programma che ha trattato la questione speculando a un livello tale da costringere le vittime a passare di lì per ripulirsi la reputazione. Per essere credute. Ieri e la scorsa settimana, ancora una volta, ha vinto il giornalismo sensazionalistico fatto sulla pelle delle donne.
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Le domande incalzanti e inopportune di Giletti alle vittime di Genovese
Nei dialoghi di Giletti con le vittime ci sono vari momenti in cui il conduttore cerca di incalzare le ragazze per ottenere reazioni da loro, quelle lacrime che suscitino pietà. Puntare sull’emotività in questo caso garantisce audience ma non di fare un giornalismo adeguata a una situazione del genere. Continuando a rimarcare la differenza che deve esserci tra un tribunale e uno studio televisivo, riportiamo un momento in particolare: «L’altra ragazza che dice di essere stata stuprata anche lei dice che ricorda e sente addirittura il dolore», afferma Giletti. «Io me lo ricordo», gli fa eco lei. E poi arriva la domanda: «Che tipo di dolore?», quella domanda che cerca di cavare fuori a tutti i costi il marcio per esporlo davanti al mondo. La diciottenne non cede: «Il d0lore che provi quando ti violentano, non so come descrivertelo sinceramente». Tagliamo corto, insomma.
Perché occorre piangere e sviscerare in diretta tutto questo per essere credute?
Già la scorsa settimana Giletti aveva intervistato altre due giovani donne. Stesso stile paternalistico, stessi discorsi sulla droga. In particolare, in un momento, una delle vittime si è messa a piangere. «Non ti devi vergognare delle lacrime, le lacrime sono una verità», dice Giletti. «Questa sera so che era pesante per voi ma è anche importante uscire con tutto quello che avete dentro ma è anche un’occasione per fare arrivare a casa quello che è successo davvero». Sul fatto che nessuno debba vergognarsi non c’è alcun dubbio, ma viene spontaneo riflettere: perché tutto questo “deve arrivare a casa”? Perché le lacrime, la tragedia, il dolore che diventano tangibili per il pubblico che guarda da casa devono essere la condizione imprescindibile perché il mondo creda a una donna vittima di stupro?