La sentenza del Consiglio di Stato alla base dell’inchiesta contro Meta sull’IVA

L’indagine sui mancati versamenti dell’IVA da parte del gigante di Menlo Park ha un’origine lontana nel tempo. Nel 2018, infatti, Agcm multò Facebook per pratiche commerciali ingannevoli riferite alla gestione dei dati personali degli iscritti

23/02/2023 di Enzo Boldi

I social network del gruppo Meta non sono “gratuiti”. Questo è l’impianto alla base della nuova indagine avviata su spinta dell’EPPO (la Procura Europea) e ora nelle mani della Procura di Milano nei confronti del colosso di Menlo Park. Si parla di dati personali, ma non dal punto di vista della privacy (come invece accaduto fino a ora), ma per quel che riguarda il versamento dell’IVA su di essi. In che senso? Perché questi dati vengono profilati a fini commerciali e dunque, secondo l’accusa, sono soggetti al versamento dell’imposta sul valore aggiunto. Ma tutto fa riferimento a una controversia iniziata nel 2018 – che si è conclusa con una sanzione da 5 milioni di euro – tra l’Agcm e Facebook e che si è conclusa con il parere del Tar del Lazio e, soprattutto, con la sentenza del Consiglio di Stato.

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Dunque, quel che sta trapelando nelle ultime ore – con la stima di una evasione (che, per il momento, è ancora presunta) che si aggira sugli 870 milioni di euro per quel che riguarda il periodo 2015-2021 – è figlio di un qualcosa già affrontato (in termini differenti, soprattutto per gli effetti) a livello di sanzioni, ricorsi, contro-ricorsi e sentenza definitiva. Proviamo a riannodare i nodi di questa vicenda ripartendo dall’inizio: la multa dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nei confronti di Facebook Inc e Facebook Ireland Ltd.

Dati personali Meta, la multa (del 2018) dell’Agcm

Era il 29 novembre del 2018 quando l’Agcm decise di chiudere un’istruttoria nei confronti di Facebook (che ancora non era inglobata all’interno di Meta) aperta nell’aprile dello stesso anno. L’azienda che gestiva la piattaforma social fu multata per un totale di 10 milioni di euro a causa delle sue pratiche non cristalline nella comunicazione dei fini commerciali (in termini di profilazione) in merito alla raccolta dei dati personali degli utenti che si erano iscritti. Quel totale era stato suddiviso così: 5 milioni di euro per quel che riguarda le cosiddette “pratiche ingannevoli” (articoli 21 e 22 del Codice del Consumo) e altrettanti per quel che concerne le cosiddette “pratiche aggressive” (articoli 24 e 25 del suddetto Codice).

Perché era così importante indicare quei comportamenti ritenuti ingannevoli e aggressivi per quel che riguarda la comunicazione all’utente della profilazione – a fini commerciali – dei dati personali? Perché Facebook diceva di essere una piattaforma a iscrizione gratuita e, dunque, non avrebbe dovuto fatturare attraverso la gestione dei dati degli iscritti. Ma anche per un altro motivo: all’epoca dei fatti, il 98% del fatturato dell’azienda derivava proprio dagli introiti pubblicitari che si basavano proprio sulla profilazione dell’utente.

Il ricorso al Tar e la sentenza del Consiglio di Stato

Nel corso del tempo, prima il Tar del Lazio e poi il Consiglio di Stato diedero parzialmente ragione all’AGCM. La sentenza definitiva, datata 29 marzo 2021, rigetto entrambi i ricorsi presentanti nei confronti della decisione del TAR che, in precedenza, aveva annullato la violazione degli articoli 24 e 25 del Codice del Consumo – quelli relativi alle cosiddette pratiche aggressive -, ma aveva certificato la violazione degli articoli 21 e 22 del suddetto Codice. Dunque, Facebook fu ufficialmente condannata al pagamento di 5 milioni di euro di sanzione per le sue pratiche commerciali ingannevoli in riferimento alla profilazione dei dati personali degli iscritti. Il tutto mantenendo l’assunto sostenuto nel marzo del 2018 dall’Agcm:

«L’Autorità ha accertato che Facebook, in violazione degli artt. 21 e 22 del Codice del Consumo, induce ingannevolmente gli utenti consumatori a registrarsi nella piattaforma Facebook, non informandoli adeguatamente e immediatamente, in fase di attivazione dell’account, dell’attività di raccolta, con intento commerciale, dei dati da loro forniti, e, più in generale, delle finalità remunerative che sottendono la fornitura del servizio di social network, enfatizzandone la sola gratuità; in tal modo, gli utenti consumatori hanno assunto una decisione di natura commerciale che non avrebbero altrimenti preso (registrazione al social network e permanenza nel medesimo). Le informazioni fornite risultano, infatti, generiche e incomplete senza adeguatamente distinguere tra l’utilizzo dei dati necessario per la personalizzazione del servizio (con l’obiettivo di facilitare la socializzazione con altri utenti “consumatori”) e l’utilizzo dei dati per realizzare campagne pubblicitarie mirate».

Ed è proprio questo il punto di partenza della nuova inchiesta sui dati personali Meta, sulla gestione a fini di profilazione e, quindi, trattati come “merce” dall’azienda. Sono proprio questi i motivi che hanno spinto la Procura Europea prima e quella di Milano poi a ipotizzare il reato di mancato versamento dell’IVA per un valore pari a 870 milioni di euro tra il 2015 e il 2021. Se i dati personali servono per la profilazione a fini commerciali e se questi fini commerciali si riflettono sugli introiti pubblicitari online, ecco che si configura l’esatto quadro previsto dalla cornice offerta da Acgm, Tar del Lazio e Consiglio di Stato.

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