Cosa c’entrano i dati personali e l’IVA non versata nella nuova inchiesta contro Meta

Qualora fosse confermato l'impianto accusatorio, il mondo dei social network potrebbe cambiare drasticamente: se i "dati personali" degli iscritti vengono equiparati a "merce" (per via della profilazione a fini commerciali), ecco che il versamento dell'imposta sul valore aggiunto diventerebbe effettiva. Per tutti

23/02/2023 di Enzo Boldi

Non è una inchiesta come le altre. Non è una potenziale sanzione simile a quelle già comminate nei confronti del colosso dei social network. Quel che è trapelato negli ultimi giorni sulle indagini nei confronti dell’azienda di Menlo Park rischia di rappresentare il vero punto di svolta nella vita stessa delle sue piattaforme (e di quelle gestite da altre). Perché si parla, per la prima volta in modo concreto, di evasione fiscale relativa al mancato versamento dell’IVA (l’imposta sul valore aggiunto) sui dati personali degli utenti raccolti da Meta nel corso degli anni. Insomma, la tassa su tutto ciò che la piattaforma ottiene attraverso le iscrizioni da parte delle persone e poi viene potenzialmente profilato. Una permuta che, di fatto, equipara i dati personali degli utenti iscritti a una merce “venduta”. Da qui la stima di un’evasione – dal 2015 al 2021 – pari a 870 milioni di euro.

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Questa cifra enorme arriva da un’indagine condotta dalla Guardia di Finanza italiana, nell’ambito di un’inchiesta partita dall’Eppo (European Public Prosecutor’s Office, la Procura Europea) e con la competenza che ora è stata presa in carico dalla Procura di Milano. Come riportato già nella giornata di ieri da Il Fatto Quotidiano, tutto ciò rappresenta una novità epocale per quel che riguarda non solo il passato e il presente, ma anche per la futura sussistenza delle aziende digitali che gestiscono le piattaforme social. Perché Meta (con Facebook, Instagram e WhatsApp) potrebbe rappresentare solamente l’inizio di un effetto domino che potrebbe essere esteso – nel caso di conferma delle accuse di evasione dell’Imposta sul Valore Aggiunto – anche a tutte le altre società.

Dati personali Meta, perché oggi si parla di IVA

Perché è importante capire le differenze tra le vecchie inchieste e quest’ultima? Il motivo è tanto semplice quanto fondamentale per l’esistenza e la sopravvivenza stessa delle piattaforme social. Perché fino a qualche giorno fa, tutte le indagini sui dati personali gestiti (o archiviati) dalle varie aziende si occupavano solo di un principio (anch’esso fondamentale): la privacy. Dunque, entravano in ballo tutte le dinamiche legate alla protezione dei dati personali Meta (parlando di Facebook, Instagram e WhatsApp), ma non dell’utilizzo a fini di profilazione che rendono questi dati dei veri e propri “prodotti” o “merce” da vendere.

Come merce?

Dunque, se i dati personali degli iscritti sono “merce” da vendere (attraverso la profilazione) ecco che – seguendo un sillogismo fiscale e tributario – non possono non essere soggetti al versamento dell’IVA. Ed è qui che entra in ballo un altro concetto, quello di gratuità delle piattaforme social. Perché già nel marzo del 2021, il Consiglio di Stato rigettò il ricorso presentato da Facebook Inc e Facebook Ireland Ltd dopo che l’Agcm (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) – nel 2018 – sanzionò (con una multa di 5 milioni di euro) l’azienda (che successivamente venne inglobata all’interno di Meta, insieme a WhatsApp e Instagram) per pratica commerciale ingannevole: faceva credere agli utenti in procinto di iscriversi al social che tutto fosse completamente gratis, senza spiegare che l’autorizzazione al trattamento dei dati personali servisse per la profilazione a fini commerciali.

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