Quali sono i dati del paywall editoriale in Italia

Con il passare degli anni, molte realtà nostrane hanno optato per la via dell'abbonamento digitale per permettere la lettura dei propri contenuti solo dietro pagamento da parte degli utenti

20/03/2023 di Enzo Boldi

Negli ultimi tempi si è parlato con insistenza, nel nostro Paese, del paywall. Una dinamica molto frequente e conosciuta ai più, ma che ha portato ad alcune decisioni su cui sono è stata aperta anche un’istruttoria da parte del Garante per la protezione dei dati personali. Il motivo è piuttosto semplice e ha coinvolto numerose realtà, ovvero la modifica della policy sui cookie: o si accetta il trattamento dei propri dati di navigazione (per una classificazione e fini commerciali, o per leggere alcuni contenuti è necessario sottoscrivere un abbonamento. In attesa di una decisione finale sulla legittimità di questo comportamento, il mercato dell’editoria italiana prosegue con il respiro affannato. Sia in termini di visualizzazioni che di appeal nei confronti dei cittadini. In questo approfondimento, proveremo a capire i dati del paywall editoriale in Italia e gli effetti su tutto il comparto.

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Prima di questa analisi, capiamo cosa si intende per paywall utilizzando la definizione fornita dal vocabolario dell’Enciclopedia Treccani: «Nei siti Internet di giornali, pubblicazioni accademiche e simili, sistema che limita l’accesso a determinati contenuti, fruibili soltanto a pagamento». Dunque, si tratta di un sistema che prevede il pagamento da parte dell’utente per accedere ad alcuni contenuti (ma anche tutti quelli presenti) di un determinato sito di informazione. Il primo quotidiano ad andare in questa direzione fu, nel lontano 1997 (quindi agli albori di Internet) il Wall Street Journal. E in Italia?

Un po’ di storia

Nel nostro Paese, la prima testata giornalistica a sperimentare il paywall è stato Il Sole 24 Ore nel 2011. Il sistema del giornale di Confindustria, all’epoca, consentiva al lettore di leggere e consultare una quota variabile di articoli (tra i 5 e i 10) al mese, prima di far scattare la “tagliola” dell’abbonamento per proseguire nelle letture. Una sezione premium (a pagamento) venne inserita anche all’interno del sito de Il Fatto Quotidiano nel 2015, nello stesso anno in cui anche Il Foglio decise di inserire all’interno del proprio portale una sezione di articoli consultabili solo a pagamento.

Nel 2016, toccò a RCS che fece sbarcare il paywall (secondo le stesse modalità “metered” de Il Sole 24 Ore) vedendo i numeri dei propri abbonati crescere nel corso dei mesi, trainati prima da Il Corriere della Sera e poi da La Gazzetta dello Sport. Poi toccò a quel che era il Gruppo Gedi: nel 2016 un parziale paywall su l’Espresso, nel 2017 arrivò il turno del quotidiano La Repubblica che optò per limitare solo alcune sezione specifiche alla sottoscrizione di un abbonamento (come venne fatto anche da La Stampa nel 2019). Nel 2018 anche le testate del Gruppo Caltagirone (da Il Messaggero a Il Mattino, passando per Il Gazzettino) iniziò a consentire ai fruitori di queste testate di leggere gratuitamente 10 articoli al mese, dopo i quali diventava necessaria la sottoscrizione di un abbonamento. L’anno successivo, nel 2019, anche una testata esclusivamente come il Post decise di offrire al lettore una possibilità (differente dalle altre): la sottoscrizione di un abbonamento non per accedere ai contenuti (che restano, ancora oggi, fruibili gratuitamente), ma per limitare le pubblicità e commentare i vari articoli all’interno del sito stesso. Nel novembre del 2021, anche Ansa decise di optare per un metered paywall (primi 30 articoli gratuiti, i successivi a pagamento).

Dati paywall Italia, la situazione del mercato editoriale

Questo breve preambolo storico (perché nel corso di questo ampio lasso di tempo sono nate nuove realtà editoriali e anche quelle già esistenti hanno optato per il sistema di abbonamento per accedere alla totalità o a parte dei contenuti) è necessario per capire i dati paywall Italia. Perché questi ultimi sono assimilabili e necessariamente paralleli a quelli degli abbonamenti sottoscritti. I numeri sono parziali, ma ci offrono il quadro della situazione per moltissime testate e derivano dal report (aggiornato trimestralmente) della FIPP (Fédération Internationale de la Presse Périodique).

Le prime due testate italiane (con numeri molto differenti) al vertice della classifica degli abbonamenti sottoscritti (con dati riferiti al resoconto intermedio di gestione datato settembre 2022) fanno entrambe parte del gruppo RCS: Il Corriere della Sera conta 457mila abbonamenti, mentre La Gazzetta dello Sport ne ha 138mila. Circa 4mila in più del quotidiano La Repubblica che, stando a questo rapporto, si ferma a 134mila sottoscrizioni (ma questo numero fa riferimento all’ultimo disponibile, quello del secondo trimestre del 2021). La quarta testata (il report non compre l’intero ecosistema informativo digitale, ma “solamente” 140 titoli) è il Post che, stando alle ultime rilevazioni datate primo trimestre 2022, ha raggiunto le 50mila sottoscrizioni.

I dati paywall Italia, come spiegato all’inizio, forniscono solamente una cornice della situazione del giornalismo online nel nostro Paese, perché non tutti gli abbonati scelgono il “pacchetto digital” (ovvero l’accesso ai contenuti online sul sito), ma ci sono alcuni che optano per la possibilità di consultare la versione digitale del quotidiano cartaceo in edicola, senza dunque avere accesso agli articoli e contenuti che sussistono sotto paywall. Questi numeri, però, ci consentono di fare un rapido parallelismo, con evidenze che appaiono lampanti scorrendo lungo i numeri di altre grandi realtà editoriali internazionali. Per esempio, sempre secondo il report FIPP, il New York Times ha 8 milioni e 590mila abbonati, il Wall Street Journal oltre 3 milioni. Il Washington Post 2,5 milioni. Ecosistemi differenti, Paesi diversi con misure ovviamente distopiche rispetto all’Italia. Ma le differenze appaiono piuttosto nette.

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