«Perché Netflix non fornisce i dati per calcolare l’equo compenso degli interpreti?»: l’intervista a Cinzia Mascoli, Presidente di Artisti 7607

Abbiamo parlato con la rappresentante del collecting di interpreti e attori che hanno avviato un'azione legale contro la principale piattaforma OTT

27/03/2023 di Enzo Boldi

L’obiettivo è quello di scardinare quel sistema che pone le sue basi su un vizio di fondo: ci sono delle leggi e delle direttive europee già recepite dall’Italia, ma la tendenza è stata (per anni) quella di non far riferimento alle indicazioni scritte sulla carta e procedere con accordi che penalizzano l’equo compenso (o, per meglio dire, il “compenso adeguato e proporzionato“) che deve essere corrisposto ad attori e interpreti per lo sfruttamento delle opere in cui sono state protagoniste. Parliamo del Cinema moderno, quello condizionato da un mercato che – oramai – ha cambiato dinamiche: non più quello riferito alle sale con poltrone e schermi in cui venivano (succede ancora, ovviamente) proiettate le pellicole, ma quello più “comodo”. Da casa, sul divano. Abbonandosi a una delle tante piattaforme a disposizione per assistere alla visione di un film attraverso una Smart TV, un pc o un dispositivo mobile. Non si tratta di un vuoto normativo, ma di una pratica comune contro cui il Artisti 7607 ha deciso di avviare una battaglia legale. Giornalettismo ha parlato con l’attrice e interprete, nonché Presidente del collecting che ha intentato questa azione nei confronti di Netflix, Cinzia Mascoli.

LEGGI ANCHE > Il problema dell’equo compenso rispetto alle piattaforme OTT anche per gli attori

Una questione di strettissima attualità, visto che da tempo le grandi aziende che fanno parte dell’ecosistema allargato dei Big Tech – ampliando la questione del diritto d’autore anche alla musica (l’ultimo caso SIAE è sulla bocca di tutti) e dell’equo compenso all’informazione giornalistica – continua a creare delle bolle, nonostante gli aggiornamenti normativi che si sono protratti con il passare dei mesi. «È la nostra mission da quando abbiamo iniziato a operare visto che siamo l’unica collecting che si occupa, in Italia, solo di attori e doppiatori – ci ha spiegato Cinzia Mascoli -. Questo tema è stato da sempre sottostimato. Il diritto connesso esiste dal 1961 in Europa per tutti questi diritti ma, all’epoca, si faceva riferimento solamente al diritto d’autore musicale. Mentre la musica fin dal 1975 con un un decreto si è vista riconoscere una soglia minima del 2% dei ricavi degli utilizzatori, per quel che riguarda l’audiovisivo, si è solo parlato di equo compenso senza che ci fosse un parametro di riferimento, perché i produttori erano più forti e più consapevoli dei loro interessi. L’ente che ha gestito questi diritti per tutti questi anni, l’IMAIE (l’Istituto mutualistico per la tutela degli artisti interpreti ed esecutori nato nel 1977 e “rinnovato” nel 2010 come Nuovo Imaie), non ha mai chiesto questo chiarimento per gli interpreti e quindi noi stiamo sollevando una questione storica, uno sbilanciamento storico».

Cinzia Mascoli ci spiega la posizione di Artisti 7607

Un comportamento che porta la bilancia a pendere solamente dalla parte delle piattaforme OTT che fanno sponda sulla mancata comunicazione dei dati (nonostante due direttive europee, una del 2014 e l’altra del 2019, entrambe recepite dall’Italia rispettivamente nel 2017 e nel 2021). Senza i dati (visualizzazioni, abbonati, ricavi ecc), infatti, diventa impossibile avviare una seria contrattazione per ottenere una cifra “adeguata e proporzionata” come compenso per gli attori e interpreti: «Nell’ultima direttiva europea, era richiesto che si chiarisse che questo equo compenso dovesse essere adeguato e proporzionato ai ricavi degli utilizzatori. Senza un parametro di riferimento sui ricavi, siamo in un mare aperto. Ora questa nuova normativa l’ha stabilito, sulla carta, però quando noi andiamo a dire che gli attori dovrebbero essere un costo della produzione e quindi non possano costare meno di quanto spendono per i rimborsi dei taxi nelle loro aziende, chiaramente troviamo grandi resistenze a un cambiamento». Manca, dunque, un adeguamento dei compensi in base agli utilizzi delle opere e ai ricavi delle aziende che gestiscono queste piattaforme: «Perché i compensi degli attori sono un costo della produzione che concorre a quei ricavi – prosegue Cinzia Mascoli -. Quindi la resistenza che troviamo, inevitabilmente, è perché stiamo chiedendo un adeguamento di questo criterio».

Da questi princìpi nasce la richiesta di Artisti 7607, soprattutto perché ci sono delle “regole di ingaggio” da rispettare (ai sensi della legge). Tutto ciò, però, a volte si scontra con un fattore terzo che rende impropriamente legittimo il comportamento elusivo da parte delle piattaforme OTT: «Se poi c’è qualcuno nel mercato che “chiude” in un’altra maniera, si fa il prezzo più basso e da lì è difficile risalire la china. Noi stiamo semplicemente lottando affinché non ci siano più compensi pari allo 0,002% dei ricavi. Noi diciamo che se la musica, da anni, ottiene almeno il 2% dello sfruttamento delle opere, se il diritto d’autore non prende (da sempre) meno dell’1%, perché c’è questa sproporzione sui diritti che spettano agli interpreti che si vedono arrivare tanti 0,002% per degli sfruttamenti dell’opera? Perché non danno i dati di quanto hanno prodotto? Perché non danno i dati delle visualizzazioni? Stiamo solo cercando di ancorare un concetto che è quello che devono pagare in proporzione a dei ricavi. Ovviamente, visto che questo sconvolge un mercato finora sulla testa degli artisti e che ha avuto la possibilità di giocare al ribasso, troviamo delle grandi resistenze. Questo è lo scenario di fronte al quale stiamo sollevando questa questione. Tra le altre cose, su Netflix una questione analoga è stata sollevata anche negli Stati Uniti. C’è uno strapotere di queste aziende. Se non danno dati completi, dati di visualizzazioni, dati di bilancio: come facciamo ad ancorare questo ragionamento a un qualcosa che poi produca dei criteri oggettivi per renderlo un compenso adeguato e proporzionato? Questa è la domanda che poniamo».

La prassi non è prassi

Nel corso dell’intervista a GTT, Cinzia Mascoli ci ha spiegato come queste dinamiche di mercato condizionino quel che è stato definito non solo da una, ma da ben due leggi: «Un po’ ci preoccupa anche il fatto che venga inserito qualcosa che è come dire “va bene, ma tra i criteri esiste anche la prassi di mercato“. Ma se nella prassi di mercato, in un mercato che si è liberalizzato e non più monopolistico (e nei diritti connessi non lo è mai stato, perché l’IMAIE era un monopolio di fatto e non di diritto), c’è qualcuno che chiude a una cifra più bassa e come riferimento si prende questo fattore, ritorniamo al punto di partenza. Noi riteniamo che, nell’interesse degli artisti, se riesco a spuntare una migliore negoziazione e qualcuno – per vari motivi che non sta a me giudicare – non fa questo, la situazione è destinata a non mutare mai».

E il cambiamento può arrivare da questa azione legale nei confronti di Netflix, l’occasione per scardinare un sistema che si fonda su presupposti sbagliati. D’altronde, la Presidente di Artisti 7607 ci ha raccontato un precedente: «Noi ci siamo trovati con TimVision che non forniva i dati. Abbiamo fatto la segnalazione ad AgCom e TimVision è stato sanzionato. Era la conferma che i dati non li forniva. Il nuovo IMAIE, invece, ha chiuso una negoziazione dicendo di aver ricevuto quei dati. È evidente che non poteva esser vero, perché se TimVision ha dovuto pagare una sanzione, voleva dire che non aveva reso noti quei dati sullo sfruttamento delle opere e, a volte, anche dei titoli. Quindi, il tema dei dati è fondamentale. Loro devono fornire dei dati e li hanno, devono dare dati di bilancio e non li danno. A fronte di questo, chi chiude più basso fa il prezzo? Questa è la nostra domanda. Questo diventa pericoloso. Ora, se SIAE, con la potenza di fuoco che ha, non riesce a chiudere con Meta per le stesse ragioni, c’è una questione che si sta ponendo. Noi, per il nostro fronte, la stiamo sollevando con altrettanta forza, perché altrimenti arrivano degli spicci a fronte di milioni di dati che mancano. Dunque, si azzera la possibilità negoziale di andare a concludere questi accordi».

Eppure le leggi ci sono…

Inevitabilmente, la nostra intervista con Cinzia Mascoli torna sull’attuale e fattuale. Perché se le leggi ci sono e le direttive UE sono state recepite, sembra essere palese una non prontissima reazione da parte delle istituzioni italiane che sembrano assistere a queste vicende (dal caso SIAE a quello del collecting  Artisti 7607) in modo piuttosto distratto: «Noi stiamo ponendo all’attenzione delle istituzioni che, però, ci sembrano un po’ non ancora consapevoli di quanto dovrebbero dare questa possibilità, questa voce alle collecting. Dunque, poi ci si perde tra regolamenti, burocrazia, leggi contraddittorie, decreti che vengono emanati in contrasto con altri decreti precedenti. Diventa una giungla così, tutta a scapito degli artisti. Le leggi ci sono, andrebbero fatte rispettare».

E se esistono, sulla carta, le norme ad hoc, occorre urgentemente lo sviluppo di una coscienza collettiva (anche a livello istituzionale) di quel che sta continuando ad accadere: «Queste piattaforme sfruttano tantissimo le opere e tutto ciò, dall’altra parte, va a scapito del fatto che questo sfruttamento se non è ben remunerato. Noi siamo felici dello sfruttamento delle opere, rappresentiamo gli artisti e ci mancherebbe altro. Mi sembra anche un’assurdità che loro non inseriscano una adeguata compensazione di quelli che sono, secondo noi e i nostri studi (anche a livello economico), un costo di produzione. Nei bilanci ci sono costi più elevati per determinate operazioni a corredo – per esempio – di un set rispetto a quella percentuale “garantita” agli interpreti. Quest’ultimo è un dato che non si trova nei bilanci e dobbiamo andare a cercare all’estero. Ricordiamo, infatti, che Netflix ha avuto un problema con lo Stato italiano e, alla fine, ha concordato un pagamento (per evitare una sanzione più pesante) da 56 milioni di euro per le tasse non pagate in Italia fino al 2019. Ma lo Stato italiano gli è corso dietro con la Guardia di Finanza e la nostra collecting – per ovvi motivi – non abbiamo né la forza né il peso dello Stato. Quindi, è una missione enorme che, storicamente, non è mai stata affrontata. Ci siamo presi l’onere di farlo».

Cinzia Mascoli: «La domanda è: ci interessa il Cinema»

Un onere che dovrebbe risvegliare le coscienze dal torpore di una percezione completamente errata che condiziona il “sentimento” popolare (non maggioritario, ma comunque elevato) nei confronti del Cinema e dell’arte cinematografica: «Gli artisti che vengono percepiti dal pubblico come dei “privilegiati”, ma non è vero. A fronte di pochi che riescono a sopravvivere, molti altri non ce la fanno. Questo equo compenso è considerato un salario differito, non si lavora tutti i giorni. Noi abbiamo più di 3mila artisti, lo vediamo magari nei primi cento che ce la possono fare. Tutti gli altri no, eppure sono fondamentali. Tutti quei comprimari che contribuiscono a quelle opere, quando non lavorano vivono di questi compensi che gli arrivano per i lavori che hanno già fatto. Se questo non diventa possibile, molti devono smettere». E Cinzia Mascoli, a nome di Artisti 7607, conclude con una domanda amaramente attuale: «Allora, ci interessa il cinema? Questo è un tema importante». Una riflessione fondamentale per il futuro del cinema italiano, ma estendibile anche a livello mondiale, che da anni ha deciso di viaggiare su quel declivio sconnesso rappresentato da quelle piattaforme che solo idealmente forniscono un supporto alla fase produttiva, ma lo fanno a mo’ di spremuta d’arancio: lasciano la buccia dopo aver raccolto succo dalla polpa.

Share this article
TAGS