Il burnout è la nuova sindrome da smart-working

Il burnout riguarda ormai tutti noi, tra esaurimenti da smartworking e l'assenza di "tutto il resto" oltre il lavoro

03/02/2021 di Ilaria Roncone

Cominciamo dando una definizione di burnout o sindrome da stress lavorativo. Si tratta di un esaurimento emotivo che può portare diverse conseguenze: irrequietezza, apatia, depersonalizzazione, senso di frustrazione. Può riguardare qualsiasi professione – e sicuramente a partire dal lockdown causato dal Covid e arrivando fino ad oggi ha assunto sempre più significati, considerato che oggi si parla di burnout coronavirus – ma, in particolar modo, il burnout vale per professioni che prevedono un’elevata implicazione relazionale. In prima fila troviamo gli eroi della pandemia, ovvero medici e infermieri, ma anche insegnanti o assistenti sociali. Il burnout prevede diverse fasi: dalla prima, l'”entusiasmo idealistico” che spinge a scegliere un certo tipo di lavoro, si può arrivare – attraverso una serie di altri momenti – all’ultima, che consiste nell’apatia, momento in cui subentra l’indifferenza e si arriva alla “morte professionale”.

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Burnout medici e infermieri per il lavoro durante la pandemia

Già lo scorso aprile si è cominciato a parlare di gestione dello stress e prevenzione del burnout tra gli operatori sanitari, con l’Inail che ha pubblicato una serie di video tutorial che spiegavano come sul territorio fossero a disposizione una serie di servizi di supporto per gli operatori sanitari. Per tutta la durata della pandemia, all’arrivo delle nuove ondate, l’abbiamo sentito centinaia di volte durante i telegiornali e letto via social in decine di testimonianze: medici e infermieri sono stati costretti a turni infiniti – anche dalle 12 alle 24 ore – per riuscire a gestire l’emergenza, con tutto il conseguente carico di stress emotivo. Ci sono però anche altri tipi di burnout emersi nel corso della pandemia: quello da smart working e quello per l‘assenza di tutto il resto.

Burnout da smart working

Di burnout abbiamo ben presto sentito parlare anche per quanto riguarda lo smart working. Di testimonianze sulla difficile gestione di questa situazione lavorativa – pur considerando gli innegabili vantaggi – se ne sono registrate moltissime. Non avere orari, dover organizzare gli spazi spesso scarsi delle case, dover gestire i figli a casa in Dad. Queste alcune delle dinamiche pratiche che hanno reso lo smart working difficile per moltissimi con varie conseguenze: problemi del sonno, attacchi di ansia, non riuscire mai a smettere di lavorare, non vedere più la propria casa come un rifugio dallo stress quotidiano ma – al contrario – vederla invasa da queste dinamiche. Anche l’assenza di contatto con i colleghi e con le persone in generale ha creato problemi e un sondaggio di LinkedIn ha provato a misurare questo stress. Tra i tanti dati emersi, ben il 46% delle persone intervistate ha affermato di sentirsi molto più ansiosa e stressata di prima rispetto al proprio lavoro e di lavorare di pù rispetto a prima (almeno un ora al giorno per il 4u% degli intervistati).

In Italia riusciamo a non far funzionare lo smart working

Già lo scorso maggio – come già riportava Mashable – psicologi e terapeuti erano interessati alla situazione smartworking e conseguenze: «Il burnout può essere in qualche modo collegato al lavoro da casa, anche se può apparire come un concetto paradossale rispetto al mero significato di smart working», affermava uno psicologo e psicoterapeuta dell’Istituto A.T. Beck, «È, infatti, questo un modello organizzativo che dovrebbe favorire il lavoratore, attraverso una maggiore flessibilità e indipendenza, un ambiente confortevole e una più ampia scelta di orari, ovviamente senza alterare il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Evidentemente qualcosa non sta funzionando». Il bilancio? Di lati positivi ce ne sono tanti, dal risparmio di denaro e tempo per gli spostamenti passando per una vita facilitata per coppie e famiglie a distanza, ma senza un controllo esercitato sulle dinamiche l’epilogo è che lo smart working non può funzionare.

Il burnout coronavirus che riguarda tutti ovvero lo stress pandemia

Il burnout è un concetto che – come molti studi psicologici e psichiatrici condotti nell’ultimo anno stanno provando – può colpire chiunque per il tipo di vita che stiamo conducendo. La pandemia da Covid-19 sta agendo in maniera più o meno invasiva sulla salute mentale di tutti e l’Organizzazione Mondiale della sanità ha affermato che la tutela della psiche degli individui deve rientrare tra le priorità assolute dei governi. Rivista di Psichiatria – che fa approfondimento scientifico su temi di psichiatri in Italia – ha condotto uno studio sulla condizione specifica di stress da pandemia. Si tratta di una «condizione del tutto nuova rispetto a quanto a noi noto nella pratica clinica e descritto nelle classificazioni dei disturbi mentali, a causa di uno stato di stress perdurante e di una miscela di stress non convenzionale, che non colpisce solo il presente ma dissesta il futuro». Il fatto di non condurre più le vite di prima e di non capire appieno se, come e quando le cose potranno tornare come erano prima – dal lavoro ai viaggi, dalle relazioni interpersonali alle dinamiche di svago – sta incidendo in maniera tale da poter condurre a un esaurimento tutto nuovo.

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