In che modo Google sarebbe complice degli attentati di Parigi nel 2015
Da quando la causa è cominciata le accuse a Google si sono affinate prendendo in causa il sistema di raccomandazione contenuti tramite algoritmo
18/01/2023 di Redazione Giornalettismo
Vecchie accuse (respinte) e nuove accuse in esame. Scendiamo nel dettaglio del processo Gonzalez v. Google LLC che vede il padre di Nohemi Gonzalez – vittima degli attacchi di Parigi del 2015 – accusare Google e in particolar modo YouTube di aver avuto un ruolo attivo nell’attacco terroristico ad opera di ISIS. Non è l’unico processo in cui le famiglie delle vittime o chi per esse, nel corso degli anni, hanno provato a puntare il dito contro le Big Tech e il modo in cui permettono a chiunque di pubblicare quello che vogliono – forti della Sezione 230 del Communications Decency Act del 1996 -, evidenziando come l’algoritmo e il meccanismo di suggerimento dei contenuti possa essere direttamente responsabile della radicalizzazione degli individui. Nel corso degli anni, le accuse raccomandazione Google sono cambiate come conseguenza alla difesa che ha messo su Google.
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Attacchi ISIS Parigi 2015, le accuse di complicità a Google (respinte)
Nel giugno 2016 la famiglia di Nohemi Gonzalez ha intentato una causa contro Google, twitter e Facebook accusando le Big Tech di aver fornito allo Stato Islamico piattaforme per diffondere il loro messaggio, raccogliere fondi e reclutare membri per la causa.
Altre cause legali, anche precedentemente a questa, hanno provato a imputare colpe rispetto agli attacchi terroristici alle Big Tech non ottenendo successo. Il punto è che – secondo l’avvocato che ha difeso Google – le famiglie non sono state in grado di portare prove sufficienti per dimostrare come le piattaforme citate abbiano consentito consapevolmente ai gruppi terroristici di mettere in atto gli attentati. Non c’era, in sostanza, un diretto e voluto collegamento.
Le nuove accuse raccomandazione Google
Questa nuova accusa – ora sotto esame della Corte Suprema statunitense – è basata su una teoria diversa, che vede gli algoritmi di ogni social network protagonisti. In sostanza, le Big Tech dovrebbero essere riconosciute come responsabili di quei suggerimenti generati dall’algoritmo che scelgono di mettere in campo.
«Negli ultimi due decenni – si legge in un resoconto sul sito della Corte Suprema Usa – molti servizi informatici interattivi hanno cercato, in vari modi, di raccomandare agli utenti la visione di particolari materiali di altre parti, come ad esempio testi scritti; di visualizzare particolari materiali di altre parti, come materiale scritto o video. Tali raccomandazioni sono attuate attraverso algoritmi automatici, che selezionano il materiale specifico da raccomandare a un particolare utente in base a informazioni su di lui note al servizio informatico interattivo. Il pubblico solo di recente ha iniziato a comprendere l’enorme
diffusione e la crescente sofisticazione di queste pratiche di raccomandazione basate su algoritmi».
Pratiche rispetto alle quali, a questo punto, è bene chiedere conto alle Big Tech in ogni ambito.