Non è vero che lo stalking “non è più un’aggravante per il femminicidio” (e l’omicidio)
Alcune testate hanno dato un'interpretazione errata (quasi inversa) rispetto a una decisione della Corte di Cassazione in merito a un caso avvenuto in provincia di Latina
18/07/2021 di Enzo Boldi
Nessun passo indietro, anzi. Negli ultimi giorni si è tornati a parlare di stalking dopo il pronunciamento della Corte di Cassazione in merito a un caso di omicidio avvenuto nel 2016 a Sperlonga, cittadina sul litorale laziale in provincia di Latina. Tutto è partito da un articolo pubblicato dal quotidiano La Repubblica nell’edizione cartacea uscita in edicola venerdì 16 luglio e disponibile online solamente per gli abbonati. Il tema è quello dello stalking aggravante femminicidio, ma la ricostruzione e – soprattutto – l’interpretazione della decisione presa dalle Sezioni Uniti della Corte Suprema è stata del tutto fuorviante.
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«Femminicidi, lo stalking non è più un’aggravante: “Così le donne indifese”». Questo è il titolo ripreso da moltissime testate e che ha dato il via a una reazione a catena di indignazione immotivata. Il caso di cronaca su cui si arrovella tutta questa vicenda giudiziaria risale al 16 giugno del 2016 quando la vittima, Anna Lucia Coviello, cadde dalle scale di un parcheggio multipiano di Sperlonga e perse la vita. Le indagini (e le sentenze) hanno certificato la responsabilità di un’altra donna, etichettando il tutto non come “incidente”, ma come “omicidio”. A spingere la donna, infatti, fu un’altra donna: Arianna Magistri, collega della vittima che già in passato si era resa protagonista di comportamenti persecutori, minacce, ingiurie e molestie nei confronti della signora uccisa.
Questo è il contesto storico di quanto accaduto e del perché si sia tornati a parlare (e a mettere in dubbio, sbagliando) del tema stalking aggravante femminicidio. Ma già da questa ricostruzione possiamo notare come appaia forzato parlare di femminicidio: con questo termine, infatti, si identificano quei casi di cronaca in cui una donna è vittima di un uomo. In questo caso, come evidente visto che la sentenza è arrivata all’ultimo grado di giudizio previsto dal nostro codice penale, non si può parlare di “femminicidio” visto che a provocare la morte di una donna è stata un’altra donna.
Stalking aggravante femminicidio, la vera storia della sentenza della Cassazione su un caso di omicidio
Ma se questo può sembrare un esercizio dialettico, occorre analizzare a fondo la decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in merito a questo caso di cronaca e spiegare per quale motivo non sia vera la ricostruzione che “lo stalking non sia più un’aggravante per il reato di femminicidio” (o per gli omicidi in generale). Per spiegarlo al meglio, innanzitutto, dobbiamo fare un piccolo passo indietro e capire qual è stato il tema su cui è arrivato il pronunciamento dei giudici ermellini. E lo facciamo grazie a un articolo pubblicato sul sito “Sistema Penale” in merito al penultimo step di questo procedimento giudiziario. E tutto è partito da una serie di interpretazioni sui “reati complessi”, ovvero quando in un “concorso di reati” uno reato viene assorbito dall’altro. Nel caso specifico, la Quinta Sezione della Corte di Cassazione si è rivolta alle Sezioni Unite per dirimere questa matassa:
«Se, in caso di concorso tra i fatti-reato di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma primo, n. 5.1, cod. pen., sussista un concorso di reati, ai sensi dell’art. 81 c.p., o un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., che assorbe integralmente il disvalore della fattispecie di cui all’art. 612-bis cod. pen. ove realizzato al culmine delle condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall’agente ai danni della medesima persona offesa».
E la decisione delle Sezioni Unite è andata in una direzione che è stata mal interpretata e che ha provocato una sterile polemica sulla fine dello stalking aggravante femminicidio (e omicidio, più in generale): «Appare considerare pienamente il maggior disvalore connesso all’abitualità del reato di atti persecutori che sfocino nel fatto di omicidio, atteso che l’applicazione del solo omicidio aggravato comporta comunque l’applicazione di una pena più severa (l’ergastolo) a quella che potrebbe derivare dall’applicazione delle regole del concorso di reati (30 anni di reclusione)».
E quindi?
Cosa vuol dire tutto questo? Un’ulteriore mano per interpretare questo pronunciamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ci arriva dai social. A parlare è Francesca Florio, giovane divulgatrice di temi che riguardano la giurisprudenza.
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Insomma, la decisione ribalta completamente la ricostruzione fatta nei giorni precedenti. Ovviamente per avere tutte le ulteriori delucidazioni sul caso occorrerà attendere le motivazioni di questa sentenza della Corte di Cassazione. Ma da quel che già sappiamo ora, possiamo affermare come non sia vero che lo stalking non sarà più un’aggravante per il reato di femminicidio e omicidio. Anzi, questa decisione dei giudici ermellini spinge a pene molto più severe parlando di reato complesso (che quindi, legato all’omicidio, può portare anche all’ergastolo) e non più al concorso di reati (che prevede pene inferiori).