Sanità: il boom del privato e quel gap enorme tra Nord e Sud

La prima conseguenza del definanziamento del Sistema Sanitario Nazionale è stata la riduzione del personale sanitario, i famosi medici specialistici di cui, anche prima dell’emergenza Covid-19, molte regioni necessitano a livello pubblico: «Dal 2009 assistiamo a un calo costante del personale a disposizione del Servizio Sanitario Nazionale – osserva Carlo Palermo, segretario di Anaoo-Assomed – abbiamo 8 mila medici, 2mila dirigenti sanitari e 36mila infermieri in meno rispetto a 10 anni fa».

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Numeri che, emergenza Covid-19 a parte, non fanno ben sperare nemmeno per il futuro: «Rispetto al resto d’Europa al momento mancano soprattutto gli infermieri, ma stimiamo che dal 2018 al 2025 il 60% dei medici italiani andrà in pensione, per far fronte a tutto ciò bisogna sbloccare al più presto i percorsi di specializzazione»

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E se esiste un gap, tra Nord e Sud del Continente in termini di spesa sanitaria, esiste un gap enorme all’interno dello Stivale in termini di prestazioni sanitarie. Con la riforma del Titolo V della costituzione del 2001 l’autonomia delle Regioni si è enormemente ampliata anche, e soprattutto, in ambito finanziario e sanitario. L’organizzazione della salute diventa, da quella data in poi, materia oggetto di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Se allo Stato spetta la determinazione dei livelli essenziali di Assistenza (LEA), l’organizzazione della sanità spetta alle singole Regioni tramite la gestione delle aziende sanitarie locali (Asl) e delle aziende ospedaliere. Una scelta che ha acuito enormemente le differenze tra Nord e Sud, come si intuisce facilmente dalla mappa sotto, ricavata dalle percentuali di adempimento dei servizi essenziali su 10 anni calcolati dalla Fondazione Gimbe.

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La regione più virtuosa d’Italia, l’Emilia Romagna, è riuscita negli anni a garantire oltre il 92% dei livelli elementari di assistenza essenziale tra 2010 e 2017, la Calabria appena il 58.9%, la Campania il 53.9%. I livelli di efficienza scendono drasticamente sotto al confine ideale rappresentato da Toscana, Umbria e Marche e raccontano, meglio di molto altro, un Paese a due velocità. Attualmente sono sette le regioni sottoposte a “Piani di rientro” da parte dello Stato Centrale per assicurare il raggiungimento dei livelli essenziali di assistenza e, soprattutto, garantire l’equilibrio di bilancio sanitario e sono quasi tutte regioni del sud: Abruzzo, Lazio, Campania, Calabria, Molise, Puglia, Sicilia. Non a caso parliamo anche di quelle che hanno subito maggiormente gli effetti dei tagli di bilancio di questi anni: «Il fulcro dei piani di rientro è stato l’equilibrio dei conti non certo la salute dei cittadini – commenta Carlo Palermo – la maggior parte dei tagli di personale sanitario è stato effettuato nelle regioni sottoposte a piani di rientro tramite sistemi come il blocco del Turn-Over, vale a dire blocco delle nuove assunzioni a fronte dei pensionamenti. La regionalizzazione del SSN ha portato a un decremento degli standard di salute generalizzata ed è sicuramente mancato una capacità di indirizzo centrale che non fosse solo economica. In questi anni abbiamo assistito a una sorta di ‘federalismo di abbandono’».

L’unica cosa che sembra realmente crescere in questo contesto è la spesa sanitaria diretta verso i privati. Se il 3,8% della spesa pubblica in sanità, rispetto al Pil nel 2017 è stata indirizzata per servizi forniti direttamente dal Sistema Sanitario Nazionale, ben il 2.9% è stata invece destinata a servizi sanitari forniti in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, ma da aziende private. Inoltre, se nel 2003 gli italiani spendevano una media di 465 euro a testa per prestazioni sanitarie private, nel 2016 la quota sale a 591 euro, un incremento del 26%. Perché oltre a un diritto, sancito dalla Costituzione, la salute è e rimarrà sempre anche un bisogno essenziale. Un bisogno sul quale non pochi sono pronti a fare affari.

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