I dieci anni che hanno minato la nostra sanità pubblica

Se il nostro Sanitario Nazionale è descritto, a ragione, come uno dei migliori del mondo, lo stesso non si può dire per le strutture e i finanziamenti che lo caratterizzano da almeno 10 anni.  E se l’emergenza Covid-19 ha sottolineato l’importanza delle strutture ospedaliere e della loro capacità di gestire e differenziare larghe fasce di pazienti, il paragone della densità di letti ospedalieri per abitanti, confrontato con quella degli altri paesi del G7 e con quelli che, per primi, si sono trovati a fronteggiare l’emergenza coronavirus è impietoso. E colpisce soprattutto quello con il Giappone e la Corea del Sud, paesi che si sono trovati ad affrontare l’emergenza Covid-19 prima di noi.

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Nel 2000 avevamo 3 volte i posti letto che abbiamo oggi

«Dal 2000 sono stati tagliati circa 70.800 posti letto in Italia e la situazione non è uguale per tutta la Penisola: se l’Emilia ha 3.15 posti letto ogni 1000 abitanti, la Calabria ne ha appena 1.98. Tutti i paesi che ci circondano hanno una dotazione di posti letto ospedalieri superiore alla nostra ed è indubbio che questo aspetto aiuti anche nella gestione dell’epidemia da Covid-19» sottolinea Carlo Palermo. Sì perché, come puntualizza il direttore di Anaao-Assomed, non è stato sempre così. Nel 1980 l’Italia aveva ben 900 posti letto disponibili ogni 100.000 abitanti. Nel 2014 si erano invece ridotti a 275, contro una media tedesca di 621 ed europea di 433 letti ospedalieri ogni 100.000 abitanti. Un indicatore di quanto questo settore non sia stato a lungo considerato cruciale dai vari governi che si sono avvicendati e di come la spesa in sanità pubblica abbia subito una flessione nel tempo.

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La spesa sanitaria in rapporto al Pil

Soffermandosi sul rapporto tra spesa sanitaria pubblica e PIL è impossibile non notare come, anche in ambito sanitario, esistano almeno due Unioni Europee. Da un lato il Nord Europa, dall’altro l’Est e il Sud che devolvono, in media, molto meno degli altri paesi dell’Unione per la salute dei propri cittadini. Una sorta di “confine”invisibile che vede molti paesi, colpiti dalle misure di austerità che hanno fatto seguito alla crisi finanziaria post- 2008, investire, di fatto, molte meno risorse nella sanità pubblica.

 

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 Sì, perché se quella cartina europea che avete osservato sopra, fosse stata disegnata nel 2009 i colori sarebbero stati abbastanza diversi. In quell’anno l’Italia spendeva in sanità una somma pari al 7.4% del suo PIL, più della Germania e della media europa.

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Nel 2017, dopo anni di crisi e di dura disciplina finanziaria abbiamo speso lo 0,6% in meno, una media che ci proietta dietro molti paesi UE. Ma è una flessione consistente che colpisce molti Paesi del Sud Europa, i più colpiti dalla crisi finanziaria e nel “mirino” delle autorità di Bruxelles per le disciplina di bilancio. Rispetto al 2009 la spesa sanitaria spagnola è calata dello 0,8%, quella portoghese dell’1,7%, quella greca dell’1,8%. Dati che non sono solo parametri numerici, ma che hanno spesso un costo sociale e umano molto alto.

Il prezzo di un definanziamento lungo 10 anni

Uno studio dell’IPPR, centro di ricerca britannico, afferma che solo nel Regno Unito, dove il taglio della spesa sanitaria pubblica tra 2009 el 2017 è stato di appena lo 0,2%, le morti premature causate dall’austerità finanziaria dei servizi sanitari pubblici potrebbero essere stimate in 130.000. Non possiamo rapportare questi dati ai paesi del Mediterraneo, ma è presumibile che il costo umano di alcune scelte economiche, anche sulle sponde del Mare Nostrum, si sia rilevato alto negli anni.

Del resto la riduzione del finanziamento pubblico alla sanità è lampante anche se si volge lo sguardo dal PIl ai soldi reali spesi in sanità pubblica,per singolo abitante, dagli stati del G7. Un paragone prezioso fornito dall’OMS che abbraccia gli ultimi venti anni e che abbiamo arricchito anche dei paesi che, per primi con l’Italia, si sono trovati ad affrontare la tempesta del Covid-19.

 

Nel 2000 l’Italia spendeva appena 1104 dollari pro capite per la sanità pubblica; nel 2007 erano saliti a 2393, più di quanto facesse il Giappone. Ovunque si assiste a un graduale incremento della spesa per salute pubblica, un incremento che nello Stivale si arresta però drasticamente dal 2009 in poi. Rispetto a quella data l’Italia spende circa 500 dollari in meno per ogni singolo cittadino, una media in controtendenza con gli altri grandi della terra. Nel periodo considerato la spesa sanitaria tedesca aumenta pro-capite di 400 dollari a testa, quella americana di 1420, quella canadese di 284, quella britannica di 276, quella giapponese di 512. A subire invece una netta inversione di tendenza sono i Paesi dell’area mediterranea dell’Ue come Spagna (-426 dollari pro capite) e Francia (-241 dollari pro capite). Tornando all’emergenza Covid-19, e ai paesi che si sono trovati con l’Italia a gestire l’emergenza prima di altri, la Corea del Sud aumenta del 50% i suoi finanziamenti alla sanità (+656 dollari pro capite) e la Cina del 32% (+169 dollari pro-capite). Ma la dinamica si fa sentire anche se si prende in considerazione la totalità della spesa sanitaria pubblica e privata.

 

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I soldi che, in media, gli italiani spendono per curarsi, tra fondi gratuiti statali e prestazioni private pagate di tasca propria, sono nettamente inferiori a quelli degli altri paesi del G7. Si avvicinano a quelli della Spagna, altro Paese che del G7 non fa parte, ma che è stato tra i più colpiti dalla piaga del nuovo Covid-19 e, come noi, si è trovato alle prese con una situazione drammatica.

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