Il paradosso dei contratti di licenza musicale: perché X no e gli altri sì?

TikTok e Meta hanno dei contratti di partnership con le principali case discografiche. Per X, invece, come dimostra anche la sentenza del tribunale del Tennessee, non sono necessari

06/03/2024 di Gianmichele Laino

L’elemento di rottura è stato rappresentato sicuramente dall’ingresso di TikTok nel mercato occidentale. Se ricordate bene, inizialmente il core business di questa piattaforma era legato ai video in lyp-sinc: in sottofondo passava un brano musicale, i creatori di contenuti inventavano sulle sue note una coreografia e – contestualmente – lo accompagnavano con il movimento sincronizzato delle labbra. Il playback dei Ricchi&Poveri, per intenderci. Va da sé che un social network che aveva questo tipo di contenuto in via primaria fosse strettamente legato a doppio filo con l’industria musicale: i video funzionavano se erano corredati da brani conosciuti, di tendenza, estremamente famosi. Una soluzione che non dispiaceva, in verità, alle case discografiche che, per certi versi, avevano la possibilità di far circolare maggiormente i propri artisti con i loro brani musicali e avevano la possibilità, a volte, di far andare virale una hit di cui nessuno si ricordava più (uno dei casi più clamorosi legato all’industria musicale italiana è stato sicuramente Tu comm’a mme di Gianni Celeste, alias povero gabbiano). Per questo, alla fine dei conti, gli accordi inizialmente stipulati tra le case discografiche e le piattaforme social avevano la caratteristica di essere esplorativi: un esperimento che, quando ha iniziato a dare i suoi frutti, è diventato inevitabilmente un business. Dal quale le stesse case discografiche si aspettavano sempre di più.

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Licenze musicali su X: come funziona e quali sono le differenze rispetto a Meta e TikTok

Una grande spinta, in questo senso, è stata data anche da Meta quando – prima su Instagram e poi su Facebook – ha introdotto i reels. Questa tipologia di contenuto si collocava esattamente nello stesso segmento dei video su TikTok e, per questo motivo, aveva bisogno di alcuni elementi imprescindibili, come i brani musicali. Le librerie di TikTok e di Meta, a quel punto, sono diventate un punto di riferimento anche per l’industria musicale: sono nati nuovi record, nuovi parametri di misurazione di una hit. Non contavano più i dischi venduti o gli stream su Spotify, ma anche quante volte un brano veniva utilizzato nei video su Instagram e TikTok, quante volte un brano riusciva a figurare tra le tendenze di questi social network.

Nell’articolo di apertura di questo monografico di Giornalettismo abbiamo parlato di un confronto tra la concezione dei social network propria degli anni Dieci del Duemila e quella degli anni Venti dello stesso millennio. In passato, infatti, non c’era modo di produrre video nativi su Facebook e Instagram al di fuori delle dirette. Si trattava, in ogni caso, di contenuti che non prevedevano ampi margini di manovra, a livello di edizione, all’interno dell’app social. Oggi, invece, sia Meta, sia TikTok danno la possibilità agli utenti di applicare filtri direttamente in piattaforma, di aggiungere brani musicali direttamente in piattaforma, di fare montaggio direttamente in piattaforma. Va da sé che, in questo modo, Meta e TikTok diventino responsabili anche dei tools e degli strumenti che mettono a disposizione degli utenti.

Twitter/X, per certi versi, ragiona ancora con le logiche dei social degli anni Dieci: non permette, cioè, la creazione di contenuti multimediali all’interno della piattaforma stessa. Questo significa, quindi, che non ha una libreria musicale e che non è tenuto a stringere accordi con gli editori musicali, come ha sostenuto anche Elon Musk abbandonando, nella prima parte del 2023, la trattativa con la NMPA (National Music Publishers Association) che voleva inserire Twitter/X tra i social network tenuti al pagamento delle royalties per l’utilizzo dei brani musicali. Tuttavia, quando un utente di Twitter produce un contenuto che prevede un sottofondo musicale, non lo fa scegliendolo dalla piattaforma social, ma ottenendolo attraverso una metodologia diversa (un download da terze parti) e aggiungendolo a delle immagini attraverso un software di montaggio. La responsabilità, dunque, è in capo al creatore del contenuto, ma non alla piattaforma. Che, come stabilito dalla decisione del tribunale del Tennessee, al massimo può vigilare sui suoi utenti verificati e su coloro che commettono violazioni seriali del copyright.

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