Joe Toscano spiega a Giornalettismo perché stiamo lavorando (gratis) per Facebook e Google

Ex experience designer di Google, ha raccontato la sua storia in The Social Dilemma

04/12/2020 di Gianmichele Laino

Joe Toscano è stato uno dei volti di riferimento del documentario di Netflix The Social Dilemma. Una figura di spicco, sia per il ruolo che ha rivestito negli anni precedenti al documentario (è stato Experience Designer in Google), sia per la sua attività di divulgazione sui meccanismi di funzionamento della rete. Oggi è impegnato in Better Ethics and Consumer Outcomes Network (BEACON), un modo per dare importanza all’etica riguardante l’utente di internet. E ci ha aiutato – in questa intervista esclusiva per Giornalettismo – a esplorare le maggiori criticità del web.

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Joe Toscano e l’intervista esclusiva a Giornalettismo

In collegamento dal Nebraska, negli Stati Uniti che si stanno affacciando al lungo periodo di transizione post elezioni 2020, Joe Toscano ci ha raccontato innanzitutto quale sia stata la molla che è scattata quando ha deciso di mettere un punto alla sua esperienza in Google. Il momento in cui ha detto enough is enough. 

«Il punto centrale, la vera ragione per cui ho lasciato Google è che il mio ruolo, quello di monitorare la user experience, è stato in realtà una sorta di esperimento sociale, che ha avuto una serie di rischi psicologici e sociologici – ci ha detto Joe Toscano -. La differenza con un normale studio di indagine psicologica e sociologica, però, è che tutto questo avveniva per avere un profitto. Mi chiedevo se si stessero domandando, durante i test che stavano facendo, se il loro prodotto avesse i risultati che loro stessi si aspettavano. Abbiamo visto in questi ultimi quattro anni che c’è molta sfiducia nei dati e nella scienza. Il problema di Google è come i vari team conducono la ricerca. Non è senz’altro la cosa peggiore del mondo, ma va rapportata senza dubbio all’impatto che la company ha nel mondo. Si tratta di una sorta di Monopoly: Google fa una cosa, il pubblico ci arriva in un secondo momento e, quando è arrivato, Google si spinge ancora un po’ più avanti. Così, a oltranza. C’è sempre stata differenza tra la creazione di un prodotto per le persone e la corretta spiegazione del funzionamento a quelle stesse persone che lo usano. Quando mi sono reso conto di questa cosa, stavo lavorando a un grandissimo progetto per Google. Sono andato dai miei capi e ho fatto presente le mie perplessità. Loro mi hanno detto che avevo ragione, ma che ormai non si poteva più tornare indietro perché sarebbe stato troppo dispendioso per la company. In quel momento mi sono sentito impotente».

La storia di Joe Toscano è diventata nota al grande pubblico, anche in Italia, attraverso la visione di The Social Dilemma. Da settembre in poi, quando cioè è stato pubblicato su Netflix, tutti hanno parlato del documentario, che, nel nostro Paese, è stato tra i 10 contenuti più visti sulla piattaforma nel mese di ottobre: «Tutto ciò su cui ha riflettuto The Social Dilemma – ci spiega Toscano – è tutto quello che percepisco quando vado in giro a raccontare la mia esperienza. Io non sono un leaker, non sto raccontando segreti: sto solo spiegando la mia esperienza personale di chi lavorava per Google, è tutto pubblico. Ma la riflessione che suscitano questi racconti nelle persone mi rende molto felice».

Joe Toscano ci spiega perché stiamo lavorando (gratis) per Facebook e Google

Joe Toscano ha un mantra. Una frase che ripete spesso. In tanti, secondo lui, ambiscono a lavorare per Google. Senza sapere, tuttavia, che lo stanno già facendo da tempo. Inconsapevolmente. Come? Ecco qui: «Ecco: vi faccio un piccolo esempio. Conoscete senz’altro reCaptcha. Molte persone pensano che sia una cosa fastidiosa e non necessaria. Ma le stesse persone non sanno che l’azione di compilare il reCaptcha è l’esempio di come le persone lavorano per Google. L’utente aiuta la macchina a identificare correttamente immagini o altri segni grafici: si pensi alla differenza tra lo zero e la “o” nelle sequenze di numeri e di lettere. Quando la macchina non riesce a identificare se sia uno zero o sia una “o”, è la quota percentuale delle persone che digitano “zero” o “o” a «insegnare» alla macchina come leggere quel numero o quella lettera. Un altro esempio: Google non paga per questo lavoro e perciò hanno miliardi di persone che lavorano per loro senza pagare un centesimo. Ma è un lavoro molto diverso da quello che conosciamo: io credo che queste attività andrebbero retribuite. Facebook sostiene che il guadagno a partire dai dati personali sia di 8 dollari all’anno per ciascun utente. Ma pensiamo a tutti i dati che diamo a un’azienda diversa da Facebook, anche solo per 25 centesimi alla volta, quando navighiamo in rete: la cifra pro capite, alla fine dell’anno, è consistente e sarebbe giusto che sia l’utente a ottenerla, non la company ad approfittarne».

E il problema, qui, potrebbe essere proprio il fatto che nessuno di noi, in realtà, ha perfettamente contezza di quello che sia un dato personale. Ce lo conferma anche Joe Toscano: «Io credo – dice – che la parte più difficile sia proprio spiegare il valore del dato personale. Penso che ci sia una generale lacuna nel capire cosa si possa fare con i dati personali, o semplicemente su cosa sia un dato personale. Ogni cosa può essere compresa a partire dal dato personale e le persone non riconoscono questo valore. Penso che nel 2030 o nel 2040 il mercato del lavoro ruoterà in maniera importante intorno ai dati personali, serviranno alcune altre figure professionali che si occuperanno di questo. Sarà un mondo completamente diverso».

Joe Toscano e i nuovi media: «Parliamo di infografiche, ma la gente comunica con le emoji»

In questa confusione generale, che investe soprattutto i singoli utenti, nemmeno i media, gli operatori della comunicazione – che pure con questi meccanismi dovrebbero avere familiarità – sono a proprio agio: «Penso che non ci sarà un modello di giornalismo sostenibile al di fuori di Facebook o di Google – sostiene Joe Toscano -. Certo, ci sono alcune testate che stanno provando a rendersi più accattivanti: penso al Washington Post o al New York Times che stanno puntando moltissimo sulle infografiche, sul data journalism interattivo e stanno assumendo delle persone che si occupano di queste cose. Ma dobbiamo abituarci al fatto che gli utenti, oggi, comunicano attraverso le emoji. Sembriamo tornati all’epoca dei geroglifici, quando lunghi concetti erano espressi dalle immagini. Pensiamo, inoltre, all’industria musicale. Prima le canzoni erano delle opere d’arte, dei veri e propri poemi: duravano cinque-sei minuti. Ora, invece, sono lunghe due-tre minuti. Lo stesso esempio può essere fatto per i libri. La vera sfida per il mondo delle news è quello di dare delle informazioni fattuali e oggettive e che siano immediatamente assimilabili dalla loro audience. Le companies che faranno questo avranno un futuro. Faccio un esempio richiamando un vecchio progetto di Google di circa cinque anni fa: raccogliere documenti relativi a 40 anni di studi sul cambiamento climatico e trovare il modo, per l’utente, di poterli visualizzare in 10 secondi attraverso una “linea del tempo” che mostrasse la differenza di temperatura e i cambiamenti nel paesaggio. L’utente deve avere esperienza della notizia, questa è la sfida».

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