L’inchiesta sui presunti finanziamenti di Facebook per censurare parti del dibattito sul referendum in Australia
Sky News Australia è uscito con una lunghissima inchiesta in cui afferma di fornire le prove del rapporto non genuino tra Facebook e i fact checkers incaricati di moderare i contenuti nell'ambito del referendum australiano sul riconoscimento dei diritti degli aborigeni
24/08/2023 di Redazione Giornalettismo
Questo è quello che emerge da una lunghissima inchiesta di Sky News Australia che accusa Facebook di far dirottare i propri fact checking – in teoria indipendenti – da attivisti.
Partiamo fornendo un po’ di contesto: in Australia si deve tenere un referendum per riconoscere i diritti degli aborigeni nella Costituzione. A volerlo è stato il primo ministro laburista Anthony Albanese in un tentativo ulteriore di riconoscere la storia precoloniale del Paese. Questo passo, se compiuto, permetterebbe il riconoscimenti dei diritti del 3% della popolazione australiana, 700 mila aborigeni, che spesso si trovano a vivere in condizioni di povertà e al centro di discriminazioni.
Si tratterebbe, all’atto pratico, di inserire un organo di rappresentanza delle popolazioni aborigene (Voice) che vada a collaborare sia con il parlamento che con il governo. Oltre a questo, nella Costituzione comparirebbe un capitolo dedicato al «riconoscimento degli aborigeni e degli abitanti delle isole dello stretto di Torres» (a nord dell’Australia).
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L’accusa a Facebook e al suo fact checking
Due università australiane (quella di Adelaide e quella di Melbourne) e Facebook sono stati oggetti dell’inchiesta in quanto accusati di condurre campagne per silenziare la copertura giornalistica e le opinioni di coloro che, al referendum, voterebbero no. Facciamo l’esempio di un caso per capire meglio: Meta (società madre di Facebook) avrebbe permesso al Royal Melbourne Institute of Technology di bloccare un servizio giornalistico.
Sky News sostiene di poter provare come Meta abbia firmato un contratto commerciale con l’istituto che prevede che il fact cheker percepisca fino a 740 mila dollari australiani l’anno dalla filiale iralndese di Meta. Facebook, dal canto suo, sostiene che la sua verifica dei fatti è indipendente e che Meta non prova a stabilire cosa sia vero e cosa no di quello che circolare in rete, affidando la questione all’International Fact Checking Network. Sky inoltre fornisce le prove rispetto al fatto che il contratto in essere tra RMIT e IFCN – che qualifica il primo come fact checker per Facebook – era scaduto, quindi l’istituto – etichettando determinati contenuti – sarebbe stato privo di controlli e supervisione nel farlo.
«L’università – afferma Sky – ha utilizzato i poteri che Facebook le ha conferito per limitare la pagina Facebook di Sky News Australia con falsi fact check più volte quest’anno, violando il Codice di principi IFCN approvato da Meta e impedendo a milioni di australiani di leggere o guardare il giornalismo di Sky News Australia». Tra le altre cose, i fact checker impiegati da RMIT avrebbero utilizzato il potere conferito per etichettare il leader dell’opposizione, Peter Dutton, come raccista e allarmista per la sua opinione contro Voice.
Il punto – come specificato nell’inchiesta – è che questo lavoro dovrebbe far sorgere dubbi su come Facebook e Meta gestiscono le operazioni di fact checking in tutto il mondo.
Sulla vicenda Meta ha minimizzato, affermando che è l’IFCN il responsabile del controllo delle certificazioni che fa. L’istituto, dal canto suo, afferma di «non imporre ai fact-checker come attenersi ai principi», definendo l’atteggiamento di Sky News come quello di un tifoso che si lamenta della decisione di un arbitro durante una partita di calcio.
La diffusione di contenuti giornalistici manomessa: è giusto?
Facendo menzione di una serie di esempi, la domanda che l’inchiesta pone al centro è: «È giusto che venga manomessa la portata dei media sulle piattaforme social?». Un esempio: la fact checker Renee Davidson pensa che le opinioni di Dutton su Voice siano, appunto, quelle di un razzista allarmista. Nonostante questo, le è stato affidati il fact check di un membro del partito del politico.
Secondo Sky News, avrebbe utilizzato il suo potere per eliminare un’opinione sulla quale non è d’accordo dal dibattito politico. «Ciò significa – si legge nell’inchiesta – che quasi nessun utente australiano di Facebook ha potuto vedere il dibattito e formarsi la propria opinione». Meta, dal canto suo, non si è assunta nessun tipo di responsabilità poiché – come già accennato – la verifica dei fatti da parte degli incaricati è indipendente.
Jack Houghton, capo del team di giornalisti digitali a Sky, ha analizzato i Fact Check Files e ha concluso: «Abbiamo già visto gli effetti dannosi che può avere una censura troppo zelante sui social media. Conversazioni importanti come quella sulle origini del COVID-19 sono state etichettate come false dai fact checker che lavoravano per Facebook, e in un altro caso Mark Zuckerberg è stato costretto a scusarsi per aver erroneamente etichettato la storia del laptop di Hunter Biden del New York Post come disinformazione e per aver limitato la portata sulla piattaforma».
«Le testate giornalistiche non dovrebbero essere controllate da attivisti che si sono insinuati nelle potenti istituzioni per agire come arbitri censori della verità. Citare un politico non significa sostenere la prospettiva di quel politico. E la cosa più preoccupante è il flagrante disprezzo che l’ecosistema mondiale di verifica dei fatti ha nel seguire le proprie regole. Va benissimo celebrare con orgoglio la propria carta, il codice di condotta e i rigorosi mantra etici per apparire credibili, ma se tali documenti vengono semplicemente ignorati, tutto diventa privo di significato».
L’inchiesta, alla fine, si riconosce il merito di aver fatto emergere come i fact checker di terze parti non siano certificati e abbiano rapporti finanziari diretti con Facebook. La richiesta è quella di un’indagine che possa capire qualcosa in più su queste presunte relazioni finanziare tra fact checker, piattaforme social e università.