Gianni Minà e l’intelligenza artificiale

Le bussole che questa professione perde, i nuovi riferimenti che a questa professione vogliono attribuire

28/03/2023 di Gianmichele Laino

È un fatto. Oggi, nel mondo, c’è un Gianni Minà in meno e una serie veramente preoccupante di servizi di intelligenza artificiale in più, con l’ambizione di scrivere testi al posto nostro. Al di là del simbolismo, al di là della singola circostanza, è un fattore di riflessione, perché ci spalanca le porte verso ciò che sarà del futuro digitale della produzione dei contenuti. E non perché l’intelligenza artificiale – in sé – sia intrinsecamente il male assoluto (anzi, come qualsiasi strumento tecnologico può essere predisposta a un buon uso o a un uso pessimo): ma perché la tara dei valori, nell’equilibrio cosmico, va in spaventoso deficit. Un Minà in meno non potrà mai essere compensato da una serie di servizi di intelligenza artificiale in più.

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Gianni Minà, gli algoritmi, l’intelligenza artificiale

C’è una frase emblematica che Gianni Minà ha consegnato alle teche Rai, andando ospite – qualche anno fa – a Che Tempo Che Fa. Diceva, più o meno, che non si può scrivere se non si conosce fino in fondo quello che si sta raccontando.

Minà non dimostrava soltanto di conoscere ciò di cui scriveva, ma di essere una cosa sola con ciò di cui scriveva. I suoi passaggi sul Sud America, sull’interpretazione dei personaggi politici e del mondo dello spettacolo di caratura internazionale, le sue analisi profonde su fenomeni paralleli rispetto al focus dei suoi reportage: hanno sempre aggiunto valore a ogni suo scritto, a ogni suo video. Era l’applicazione massima del concetto di giornalismo itinerante, di movimento, di profondità. Quando Minà conosceva una cosa o una persona – e capitava spesso, anche grazie alla sua gentilezza -, allora era il momento di produrre del contenuto informativo. Che, a volte, non era soltanto una semplice notizia, ma la vera e propria arte di dare una notizia.

È un bagaglio che non c’è più e che andrebbe valorizzato, al pari del sogno della digitalizzazione del suo archivio (di cui aveva parlato a Giornalettismo, meno di un anno fa). Oggi, invece, l’ultima frontiera della realizzazione di nuovi contenuti e materiali si lascia indietro il valore artigianale dell’approfondimento e punta tutto sulla rapidità e sull’automazione dell’intelligenza artificiale. Che – tra quella di ChatGPT, quella di Bard e quelle che ancora devono arrivare dalla Cina (Baidu ha un suo progetto per competere con i colossi americani) – ci viene presentata come qualcosa in grado di sostituire l’iniziativa dell’essere umano. Producendo testi che – oggettivamente – in alcuni casi sono migliori rispetto ai materiali da articolificio che ci sono stati propinati negli ultimi cinque anni, in ossequio alla quantità, a discapito della qualità.

E mentre si saluta l’intelligenza artificiale come quello strumento che potrà far risparmiare gli editori sulla forza lavoro, che ottimizzerà la produzione, che riempirà giornali di frasi fatte, ci ritroveremo in men che non si dica a rimpiangere il lavoro di ricerca e la scintilla creativa di chi, come Gianni Minà, osservava il mondo con gli occhi dell’uomo, in presa diretta, sul luogo in cui scorreva la storia. Non la sintesi richiesta da un prompt. Non la costruzione piana del periodo. Non la schematica suddivisione SEO oriented.

Mai un’intelligenza artificiale sarà in grado di riprodurre la nota di tango della fisarmonica di Astor Piazzolla che passa nel subconscio del lettore che assapora un pezzo di Minà.

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