L’importanza di un’ecologia digitale: l’intervista a Francesco Cara

Abbiamo parlato con il docente, curatore del Climate Space Festival e co-autore del libro in cui si parla di come l'industria digitale e tecnologica abbia un peso rilevante per quel che riguarda le emissioni di CO2

02/02/2023 di Enzo Boldi

Condivido, quindi consumo. Sembrerà paradossale, perché fa ormai parte del nostro quotidiano e delle nostre abitudini, ma anche inviare una semplice e-mail a un nostro contatto genera un’emissione di anidride carbonica. Stesso discorso per quel che riguarda la pubblicazione di una foto sui social o l’archiviazione della stessa in un Cloud. Tutti comportamenti che sembrano essere non dannosi per l’ambiente, ma che in realtà contribuiscono alla sovrapproduzione di CO2 nell’ambiente che ci circonda. Non si tratta di terrorismo psicologico, ma della realtà che emerge anche dai dati ufficiali raccolti da enti, associazioni e istituzioni. Di tutto ciò abbiamo parlato con Francesco Cara, docente, curatore del Climate Space Festival e co-autore del libro “Ecologia digitale”.

LEGGI ANCHE > Quanta CO2 produce uno smartphone? Il report sulla “Digital Green Evolution”

Perché il futuro può essere migliori di quello che stiamo vivendo. Perché troppo spesso le persone subiscono la fascinazione collettiva del modello all’ultimo grido di uno smartphone, un tablet o un pc (o altri dispositivi digitali). Perché, ogni giorno sempre di più, ci si collega ai social network per pubblicare e condividere con gli altri – sempre in forma digitale – i nostri pensieri, le nostre foto e i nostri video. Ma tutto ciò ha dei risvolti a livello di ambiente, come ci ha spiegato Francesco Cara.

Francesco Cara ci parla dell’ecologia digitale

«Nel lavoro che abbiamo fatto per “Ecologia digitale” ci siamo appoggiati sui dati della Agenzia Internazionale dell’energia. Quindi dei dati che, in genere, sono abbastanza conservativi. E parliamo di un impatto significativo, pari a quello dei trasporti aerei – ha spiegato Cara a Giornalettismo -. Parliamo di una fetta significativa, tra l’1.5 e il 2.5%. Consumiamo, trasmettiamo e produciamo sempre più dati, quindi questo fenomeno è ancora in crescita anche per via di tutte le nuove innovazioni che stiamo sviluppando, a cominciare dall’intelligenza artificiale, passando per il machine learning e tutto il mondo delle criptovalute e della blockchain. Insomma, sono tutte applicazioni estremamente intense dal punto di vista del consumo energetico. Poi c’è anche la parte fisica che spesso dimentichiamo, come il mondo dell’informazione che si appoggia su un grande numero e una grande varietà di infrastrutture. Il digitale non è un mondo virtuale, ma molto materiale».

Prevenire è meglio che curare

Ma è possibile utilizzare dei modelli predittivi per non dover arrivare a un punto di non ritorno, intercettare le problematiche a livello di emissioni ed evitare di dover fare i conti, in un futuro molto prossimo, con questi problemi che sono reali per tutti? «È la domanda che mi preoccupa di più da qualche mese a questa parte. Perché bisogna sempre proiettarsi verso il futuro conoscendo la situazione attuale. Soprattutto occorre cercare di capire le implicazioni future. Ho lavorato molto negli anni dell’inizio di internet e avevamo il concetto di una “innovazione che non aveva bisogno di permessi“. L’idea era quella di ridefinire tutti i nostri funzionamenti attraverso il digitale. Ora occorre veramente immaginare che l’innovazione digitale, come tutto quello che stiamo cercando di fare al mondo, deve essere un’innovazione sostenibile. Un’innovazione responsabile».

L’esempio delle criptovalute e delle innovazioni sostenibili

Ma ci sono esempi pratici di come un’innovazione non sostenibile abbia aperto le porte a delle modifiche strutturali che l’hanno resa più sostenibile? «Possiamo parlare del mondo del Bitcoin, che è diventato il il consumatore massimo per eccellenza di energia e di risorse materiali e perché richiede trattamenti dell’informazione molteplici e complessi. Negli ultimi tempi è nata un’alternativa alla metodologia di validazione delle transazioni su Bitcoin con un’altra criptovaluta che si chiama Ethereum, ma la stessa strada è stata intrapresa da Solana. Questa seconda famiglia di di criptovalute utilizza lo 0,01% dell’energia che utilizza Bitcoin. E questo secondo me è un bellissimo esempio di innovazione. E dobbiamo continuare a innovare. Non dobbiamo fermarci nell’innovazione perché quello sarebbe un veramente un peccato madornale. Ma facciamolo in modo responsabile, capendo quello che è la domanda energetica di impatto sulle risorse ambientali delle innovazioni che sviluppiamo».

Francesco Cara: «Ecco quanto “consumano” le Big Tech»

E quando si parla di emissioni di CO2 non si può non parlare delle grandi aziende tecnologiche. Quelle che hanno sviluppato prodotto informatici e digitali di uso e consumo quotidiano. Non solo per lo svago, ma anche per lavoro. E i dati sull’impatto ambientale e di consumo energetico sono preoccupanti. «Dalle ricerche che abbiamo fatto per scrivere “Ecologia digitale”, emerge che l’energia consumata dalle Big Tech equivale al 50% dell’energia rinnovabile che viene prodotta oggi – ha spiegato Francesco Cara ai microfoni di GTT -. Un dato che mi ha scioccato molto, considerando che le Big Tech nel loro funzionamento fanno molto poco per ridurre il consumo energetico. E noi, quando utilizziamo piattaforme, archiviamo foto e andiamo a rivederle, facciamo parte di questo meccanismo». Ma nel futuro qualcosa potrebbe cambiare: «Quello che è molto molto interessante dal punto di vista di queste aziende è che c’è un nuovo movimento, il Web3, che effettivamente si sta sviluppando come un’alternativa molto potente, interessante e dinamica per competere contro il mondo monopolistico delle Big Tech, sviluppando un’innovazione più sostenibile. E per capire il forte interesse, basta osservare l’andamento di Borsa delle Big Tech tradizionali che, questi ultimi mesi, sono sotto pressione proprio dal punto di vista degli investitori che sono interessati a modelli alternativi basati su open source, dove i dati personali rimangono dati personali. Questo movimento, secondo me, ha un’enorme potenziale».

Infine c’è il tema dei dispositivi che dovranno necessariamente essere modificati, anche per rispettare le direttive – per esempio quelle europee – sugli standard non solo di utilizzo, ma anche di produzione. E le aziende produttrici dovrebbero seguire alcuni dettami che porteranno a una riduzione non solo degli sprechi, ma anche delle emissioni: «Occorre allungare la vita dei dispositivi e progettarli in modo che possano essere riparati, che possono essere aggiornati senza necessariamente essere sostituiti. Insomma, che siano smontabili in modo tale di agevolare anche il recupero delle materie e dei componenti. Questo elemento materiale che sta emergendo lo vediamo nelle normative europee anche per quel che riguarda data center (e non solo), e dove il tema dell’eco-design è molto, molto forte. È un altro elemento che ci permetterà di di ristrutturare il mercato, di cambiare una direzione che è una direzione assolutamente insostenibilità».

Share this article