Dan Brown e Il Simbolo Perduto: quante sciocchezze in un libro solo
24/09/2009 di Anna Esposito
E’ uscito in Gran Bretagna l’ultima opera dell’autore del Codice Da Vinci, e come ampiamente prevedibile, le imprecisioni e gli errori storici abbondano
Il nuovo thriller di Dan Brown, The lost symbol (Il simbolo perduto), edito dalla Random House, è apparso il 15 settembre fresco di stampa nelle librerie di Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada. La data non è stata scelta a caso, giorno in cui i cristiani nell’antichità celebravano la festa della Santa Croce. Dopo i primi giorni di lancio del libro le stime parlano già di ben 5 milioni di copie vendute che lasciano presagire un ennesimo, indiscusso successo letterario. Tra coloro che non dubitano che ciò avvenga la giornalista inglese Anne Jones, che recensisce libri per The Guardian, The Indipendent e Sky Tv, seriamente convinta che The lost symbol possa diventare il libro più venduto nella storia dell’editoria mondiale. L’ultima fatica letteraria di Brown nasce come il sequel tanto atteso del suo precedente bestseller, che tanto scalpore destò, Il Codice Da Vinci. Uno scalpore che certo portò i suoi frutti se si considerano le 81 milioni di copie vendute in tutto il mondo dal 2003 ad oggi. Il protagonista è ancora una volta il professore di simbologia, Robert Langdon, che attraverserà le 524 pagine cercando di farsi strada tra una fitta rete di misteri, condita da riti massonici di cui dovrà decifrare i simboli e le trame insidiose.
LA STORIA – A fare da scenario alle ultime vicissitudini di Langdon non più l’Europa, ma il cuore pulsante del potere americano, Washington, e avrà solo 12 ore per risolvere il rompicapo sventando il complotto massonico. Il luogo dell’ambientazione rievocherebbe le relazioni massoniche di George Washington, fondatore della città (la cui stessa pianta urbanistica ne richiamerebbe i simboli), disegnata dall’architetto e urbanista, nonché secondo quanto si legge nel libro anch’egli un massone, Pierre Charles L’Enfant. Langdon si presenterà in Campidoglio dietro l’invito del suo amico Peter Solomon, ma una volta giunto a destinazione di Solomon troverà solo la sua mano amputata con sopra tatuati dei simboli massonici. Una mano che parrà indicare con la sua posizione un dipinto del 1865 raffigurante il primo presidente degli Stati Uniti, George Washington, nelle vesti di una divinità pagana. Del tema del libro offre un chiaro indizio la copertina con l’immagine della Casa Bianca che campeggia all’interno di una piramide rossa alla cui sommità compare un simbolo massonico, la stessa piramide che si trova vicino all’effigie del presidente Washington su tutte le banconote di un dollaro americano. Langdon non sarà solo, potrà contare sul supporto e poi inevitabilmente sull’amore della sorella di Solomon, Katherine, esperta di noetica. Il teorema fondante del libro poggerebbe le basi sul presunto fondo gnostico-massonico dell’ethos americano. Per tutti gli avvincenti sviluppi della vicenda vi rimandiamo alla lettura del libro la cui uscita in Italia, per la Mondadori, è prevista per il prossimo Natale.
LE IMPRECISIONI – Non solo rose per Brown, già qualche spina prova a pungere velenosa. Sono infatti molti a storcere il naso per le inesattezze e le imprecisioni storiche di cui è farcito il libro, ad esempio sulla presunta adesione alla massoneria di L’Enfant che invece avrebbe progettato il Plan of the City of Washington nel 1791-1792 ricevendone indicazioni non da George Washington, ma da Thomas Jefferson. Oppure le inquietanti descrizioni sui riti scozzesi della massoneria e il suo dirigente Albert Pike che sarebbero pura invenzione di un finto massone che ammise l’impostura pubblicamente nel 1897. Inutile dire che Dan Brown ha più volte voluto precisare che i suoi sono solo romanzi (come quelle di Bennato solo canzonette) e non saggi storici che debbano fare i conti con debiti riscontri ed essere rigorosamente attendibili. Alle voci del coro di detrattori dello scrittore se ne aggiunge una illustre, quella dello storico Michael Baigent che di recente peraltro ha perso una battaglia legale proprio contro Brown, reo a suo dire d’aver attinto a piene mani le teorie sui Merovingi e la Maddalena inserite nel Codice Da Vinci da alcuni suoi libri, tra tutti Il Santo Graal. L’occasione di infierire gli è stata offerta da The Daily Beast che lo ha contattato per chiedergli la sua disponibilità nello scrivere una recensione sull’ultimo libro del suo acerrimo nemico.
UNA PESSIMA RECENSIONE – Inizialmente a Baigent dev’essere sembrata una burla, ma poi ha deciso di accettare promettendo d’essere implacabile, ma onesto nella sua critica. L’esperienza non deve essere stata particolarmente esaltante se ha poi dichiarato: “Arrivato a pagina 8 ho chiuso il libro, ho fatto un respiro profondo e ho guardato il soffitto in preda alla disperazione: il libro è terribile. Potrebbe essere candidato tra il novero dei peggiori libri che abbia mai letto. E c’erano ancora 500 pagine da leggere”. Le principali critiche che lo storico muove contro Dan Brown sono innanzitutto la lentezza del ritmo narrativo, al punto da meravigliarsi che l’editore non abbia provveduto a metterci mano, caratteristica che invece si contrapporrebbe all’incalzante e avvincente ritmo de Il Codice Da Vinci. Troppe le digressioni non necessarie agli sviluppi contingenti della storia che immobilizzano il lettore, distraendolo e facendo calare inevitabilmente la tensione. Ma l’accusa ancor più velenosa sarebbe a suo dire il tentativo di spacciarsi per uno studioso della materia che tratta mentre sarebbe solamente particolarmente abile a repertare materiale da internet e dintorni, senza opportunamente preoccuparsi di verificarne l’attendibilità. Le credenziali accademiche di Katherine Salomon fanno riferimento alla Noetica e agli importanti esperimenti condotti sui Random Number Generators. Le ricerche in merito sarebbero state pubblicate da The Journal of Scientific Exploration, nemmeno menzionate dall’autore del libro. E per Baigent sarebbe una delle evidenze che dimostrerebbero che Dan Brown non ha una vera e propria conoscenza della materia di cui tratta nel libro. Ad un certo punto egli cita uno studioso e la sua biblioteca di 500 libri. Nessuno studioso che si rispetti ne ha meno di diverse migliaia, insomma per Baigent Brown non deve averne frequentati molti. Anche la stessa autorevolezza di Langdon perde di spessore quando verso le ultime pagine si interroga sul perché nel Vecchio Testamento Dio è indicato con il termine plurale Elohim. Un dilemma di facile risoluzione se si fosse seguito un corso universitario dedicato alla materia di cui si parla.
QUALCOSA DI MEGLIO DA FARE – Insomma Dan Brown secondo Baigent non meriterebbe il successo riscosso dai suoi romanzi, che giudica scaltre operazioni di marketing al contrario di suoi colleghi più scrupolosi e di talento come James Lee Burke, John Grisham, e Lee Child. I personaggi dei suoi libri risultano infine piatti, ombre preda di trame sempre più prevedibili e scontate. Ciò che salva invece è l’atteggiamento assunto nel libro sul tema della massoneria, ne spiega bene i meccanismi interni. Altra bacchettata sulla mano per la descrizione che Brown fa di una cerimonia massonica in cui si beve da un teschio umano. Una scena, precisa Baigent, che ha più probabilità d’avvenire in un tempio tibetano piuttosto che in uno massonico. L’interrogativo dello storico a margine della sua recensione impietosa è se non fosse meglio che Dan Brown invece di passare le sue giornate incollato al computer a spulciare dai motori di ricerca occupasse il tempo in modo più avvincente. Potrebbe attraversare il deserto del Sahara, fare trekking sul Tibet, recarsi in Kashgar o in Irkutsk per un anno dedicandosi allo studio dello sciamanesimo dell’Asia centrale o se proprio la sua pigrizia non glielo consente fare due chiacchiere con i nativi d’America. Chissà, magari scoprirebbe di avere davvero qualcosa di cui scrivere.