BuzzFeed News, dal Pulitzer alla chiusura: la qualità del contenuto non è bastata a salvarlo

Oggi non conti nulla se hai proposte editoriali interessanti, ma ti manca il modello di business. E puoi vincere anche un Pulitzer

24/04/2023 di Gianmichele Laino

Si può avere in casa un team di giornalisti in grado di vincere il premio Pulitzer per la loro inchiesta sui campi di lavoro degli uiguri in Cina e fare in modo che questa e altre notizie emerse dal lavoro di investigazione di questa stessa redazione potessero continuare a essere gratuite per il pubblico? Possibile che gli approfondimenti non prevedessero un modello paywall o una sottoscrizione, un abbonamento per fidelizzare l’audience? I guadagni pubblicitari erano tali da poter sostenere un modello del genere, una redazione numerosa e altamente specializzata? I social network garantivano davvero questo margine di sicurezza al modello imprenditoriale che stava dietro a BuzzFeed News? Sono tutte domande che, alla luce dei fatti, sembrano scontate ma che, evidentemente, nessuno ha considerato un campanello d’allarme nei mesi scorsi, quando BuzzFeed News si trovava a vincere un premio Pulitzer e a firmare inchieste di altissimo profilo (che hanno portato anche alla chiusura di un programma televisivo iconico come quello di Ellen DeGeneres, dopo che la redazione aveva rivelato il clima di lavoro tossico che si respirava all’interno degli studi di produzione) e, contemporaneamente, a fare i conti con la sopravvivenza della redazione, tagliando risorse e costi. Tagli che, stando alla lettera del CEO Jonah Peretti, stanno portando alla chiusura di BuzzFeed News.

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Chiusura di BuzzFeed News, cosa resta del giornalismo di qualità

Ragioniamo sulla base dei numeri del 2016 – anno che, ancora una volta, può essere preso in considerazione come uno di quelli in cui le news sui social network hanno avuto una maggiore visibilità. Sette anni fa, BuzzFeed poteva vantare numeri incredibili di traffico direttamente dalle piattaforme digitali, potendosi permettere meno traffico, invece, da fonti organiche. Nel 2016 – secondo alcuni report pubblici – BuzzFeed affermava che il 75% dei suo traffico arrivava dall’esterno del suo sito web. Su questa percentuale, in particolare, il 33% degli utenti proveniva da Facebook, il 21% da Snapchat e il 14% da YouTube. Non è un mistero, tra le altre cose, che BuzzFeed abbia investito moltissimo anche sulla sponsorizzazione dei contenuti sui social network, creando persino una rete di pagine che permettevano alla redazione di condividere post di natura pubblicitaria.

Insomma, in questo modo, BuzzFeed (e contemporaneamente la sua sezione di news BuzzFeed News) avevano creato una strategia editoriale basata per la maggior parte sugli incastri e sul know-how di gestione degli account sui social. Non importava, insomma, la proposta del contenuto, quanto la sua distribuzione. Un elemento del genere, nel business plan, significava una sola cosa: puntare tutto sulle vetrine messe a disposizione dalle piattaforme social e ridurre drasticamente il ruolo dei propri canali di distribuzione. Se BuzzFeed realizzava un video esclusivo, per intenderci, dava priorità alla sua distribuzione sui social network e non tanto a quella sul proprio sito. In questo modo, contava di raccogliere più utenti possibili in grado di “imbattersi” in quel contenuto (distribuito più o meno efficacemente dall’algoritmo di Facebook) e non di portare quegli stessi utenti a ricercare il proprio contenuto sulla sua piattaforma proprietaria (il sito web).

In un modello del genere, il contenuto aveva valore per il business?

A conti fatti, insomma, si arriva a un bivio relativo al contenuto: quest’ultimo, in termini di valore assoluto, è indiscutibile, tanto da assicurare alla redazione di BuzzFeed News un premio Pulitzer; ma, in termini di valore economico, può valere lo stesso discorso? La strategia portata avanti da Jonah Peretti e da tutto il board di BuzzFeed non è mai andata in questa direzione: mai si è creduto che il solo contenuto potesse reggere, da solo, l’intero peso del business economico della testata.

Mai si è creduto, insomma, che BuzzFeed potesse crearsi un pubblico interessato esclusivamente alle sue inchieste: mancanza di fiducia nei confronti di professionisti in grado di toccare i vertici e di ottenere i premi più ambiti di questo mestiere o semplice arrendevolezza rispetto al mondo dei social network ritenuto, fino a questo momento, l’unico a poter garantire una sorta di futuro all’editoria?

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