Il web che ci ha salvato, il web che ci ha perduto (ma la fine del mondo la immaginavo diversa)

Cronache dalla fine della decadenza

31/12/2020 di Gianmichele Laino

Siamo l’impero alla fine della decadenza. Curioso iniziare un pezzo sul web con una poesia di Verlaine. Ma guardiamoci intorno: nel silenzio delle strade e nello schermo retroilluminato di un tablet, nel tacere della zona rossa e nell’assordante rumore di fondo dei social network, potrebbe esserci immagine più adatta di quella del grande sogno globale che si sta lentamente spegnendo, arrotolato su se stesso?

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Eppure, la fine del mondo la immaginavo diversa. Pensavo più a una sorta di rituale collettivo in cui tutti, per le strade e nelle piazze, ci saremmo guardati negli occhi per un’ultima volta prima di alzare bandiera bianca. In cui un coro a una voce sola avrebbe scandito la nostra ultima battaglia. Un pugno in cielo, una rosa rossa, una vecchia canzone di Pierangelo Bertoli per far soffiare ancora il vento.

Invece, questo passo in più verso la fine del mondo che si consuma a mezzanotte, con un progresso dalla cifra pari a quella dispari, avanza misurando la lunghezza di un corridoio, con le cuffie nelle orecchie e un parente – anzi, un congiunto – al cellulare. Si salverà non chi avrà più amici, ma chi ne ha sempre avuti meno. O nessuno. La solitudine non soltanto come cifra stilistica, ma come appiglio per sfuggire al contagio.

Ed è nella solitudine che si nasconde la lenta trasformazione da leone da tastiera, da diffusore di fake news, da odiatore seriale, persino da frequentatore di piattaforme dai contorni torbidi. Dove si arriva a vendere se stessi, ad acquistare immagini o video altrui. Perché l’assenza di contatto – resa all’ordine del giorno da un dpcm – è stata sempre una sorta di regola non scritta di chi ha sempre avuto un rapporto difficile con il sociale, ma ha di contro prediletto il social.

La pandemia è stato un grande acceleratore di un processo che, ormai, era nelle cose. E che ci ha messo di fronte a una realtà che avremmo comunque dovuto affrontare, orientativamente, tra un decennio. Quando la memoria collettiva di ciò che esisteva prima di internet – la bellezza di una canzone da sei minuti, i libri letti nei vagoni della metropolitana (nessuno legge più in metropolitana, lo avete notato?), darsi un appuntamento, sbagliare strada e perdersi guardando i palazzi e non Google Maps – avrebbe avuto sempre meno depositari.

Il web e le mode della GenZ ci hanno salvato perché ci hanno dato l’illusione di essere meno soli. Ma ci hanno anche perduti, perché non eravamo pronti a capire che, così facendo, soli lo siamo diventati davvero.

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