Un algoritmo (non) ci seppellirà: cosa c’è dietro ai nuovi scioperi dell’era digitale

Gli scioperi nell'era digitale, da Amazon a Just Eat, la dicono lunga sul mondo del lavoro che abbiamo creato

25/03/2021 di Daniele Tempera

Un omino che continua ad avvitare bulloni mentre viene inghiottito dalla catena di montaggio a cui sta lavorando, fino a diventare, esso stesso, parte di un ingranaggio. È la scena più famosa di “Tempi Moderni” film del 1936 di Charlie Chaplin, breviario visivo per capire cos’è stato il fordismo per milioni di lavoratori in tutto il mondo. Uno spazio basato su gesti spesso ripetitivi e una rigida gerarchia, sull’uomo che diventa una protesi della macchina, sull’ottimizzazione forsennata di tempi e prestazioni in un luogo che diventa il simbolo dei conflitti di classe e della produzione di ricchezza: la fabbrica. Quando tutto questo veniva raccontato, ed elaborato, il mondo era ancora analogico. Le informazioni impiegavano giorni per viaggiare da un Continente all’altro, le borse erano ancora luoghi fisici, i canali televisivi o radiofonici erano ancora pochi e prevalentemente pubblici.

Quando il web è nato questo mondo stava già scricchiolando e la rete sembrava parte di una profezia. La nuova era digitale sarebbe stata l’era della creatività, della fine della gerarchia, della de-industrializzazione, delle opportunità. La Silicon Valley emanava un’aura di progresso e di futuro. Don’t be evil , letteralmente “Non essere malvagio”, è stato per molti anni il motto aziendale di Google. A più di venti anni da questa profezia, le nostre esistenze sono diventate molto più digitali di quanto avremmo immaginato, ma le cose non sono andate come l’ingenuo tecno-ottimismo di quegli anni poteva ipotizzare. Il primo sciopero dei dipendenti Amazon in Italia, dello scorso 22 marzo, e quello dei rider, in programma il prossimo 26 marzo, ce lo ricordano nitidamente. Perché entrambi sono finalizzati ad abbattere quel “velo di maya” che esiste tra i nostri click e la materializzazione dei nostri desideri.

Già, chi rende possibile le consegne in tempo reale? Cos’ha reso i colossi dell’e-commerce così potenti? Una filiera fatta di uomini e donne che hanno incrociato le braccia per un giorno con istanze che sarebbero state comprensibili anche dai nostri nonni. Tra le lamentele degli addetti alla logistica Amazon spiccano, ad esempio, i turni massacranti, la ripetitività delle mansioni lavorative con conseguenze fisiche che, a lungo termine, si fanno sentire. Nell’era della smaterializzazione delle esperienze e dei bit che si muovono istantaneamente da una parte all’altra, i lavoratori parlano di corpo: tendini infiammati, schiene bloccate, articolazioni che cedono. Gli operai, appoggiati dai sindacati confederali, denunciano i ritmi di lavoro insostenibili, le scarse condizioni di sicurezza sul fronte Covid e gli stipendi ridotti all’osso. Proprio nell’anno in cui il colosso americano fa registrare il boom di profitti, causa pandemia. Dall’altra parte i fattorini, spesso appaltati ad altre società, e quindi formalmente non alle dipendenze dirette di Amazon, denunciano di dover correre senza sosta ed effettuare consegne a ritmi folli (una ogni tre minuti) pena la perdita del posto di lavoro. Insomma, nel 2021 il Chaplin di “Tempi Moderni” non sembra poi così lontano, ma con qualche sostanziale differenza.

Fattorini e occupati, pur lavorando per la stessa azienda, sono spesso assunti per conto terzi: le parole d’ordine sono “appalto” e “somministrazione”. La frammentazione delle forme contrattuali, anche all’interno della stessa realtà, è la prassi. Il fine è fomentare la competizione costante tra i lavoratori piuttosto che permettere la conciliazione delle loro istanze. In molti casi la fabbrica non esiste più e i luoghi per confrontarsi scarseggiano. Il controllo, grazie ai nuovi device digitali, è diventato onnipervasivo, il lavoratore è sottoposto agli occhi dell’azienda costantemente. E poi c’è l’algoritmo al quale tutti, fattorini o dipendenti, devono sottostare. L’algoritmo diventa l’unico metro di giudizio dell’operato di un lavoratore, regola e stabilisce obiettivi, produttività, tempi. Una sorta di Moloch al quale i dipendenti devono obbedire, pena la perdita del posto di lavoro o onerose punizioni.

Tra i primi a denunciare questa deriva, ci sono i rider, che il prossimo 26 marzo incroceranno le braccia. Contestano il nuovo contratto siglato da Assodelivery e Ugl e si dicono stanchi di lavorare per pochi euro a consegna e a cottimo. Malgrado l’annuncio di JustEat (che, dopo gli annunci, sembra pronta a siglare un accordo per l’assunzione di alcuni riders), la maggior parte di loro non ha un contratto di lavoro subordinato. Teoricamente sono liberi professionisti che lavorano a chiamata, fattualmente sono lavoratori sotto-pagati alla mercé di un algoritmo che li mette costantemente in competizione tra loro e regola tempi di vita e lavoro. Sono la cartina di tornasole della cosiddetta “Gig Economy”, modello basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo. E spesso svolto autonomamente e sottopagato.

E se l’era industriale ha il suo apice in “Tempi Moderni”, anche l’era digitale ha il suo cantore. In “Sorry We Missed you”, Ken Loach ha raccontato nel 2019, cosa vuol dire la precarietà del nuovo mondo digitale.

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Ricky, il protagonista del film, è un padre di due bambini e un marito affettuoso. La famiglia non può permettersi un mutuo e così decide di comprare un furgone ed entrare nel mondo della logistica. Formalmente è un lavoratore “autonomo”, ma solo sulla carta. La sua vita viene scandita dai risultati che deve assicurare per continuare ad avere garantito il suo giro di affari e dalla lotta per la sopravvivenza contro gli altri lavoratori. Una dinamica che avrà conseguenze devastanti per la sua vita familiare e personale. Sopra queste vite che si sfaldano regna la fredda razionalità di un algoritmo, al quale anche i superiori di Ricky sono sottoposti. Formalmente nessuno ha più responsabilità, tutto diventa “razionale” e inumano.

Quello che la parabola del protagonista di “Sorry We Missed You”, e gli scioperi dei lavoratori ci stanno dimostrando, è che la razionalità è solo un’illusione. Gli stessi strumenti che vengono utilizzati per prevenire gravi malattie, prevedere il tempo di domani o l’andamento di una pandemia, possono essere utilizzati per il vantaggio di pochi e lo svantaggio di molti. E quello che avviene non è certamente nuovo. Dall’inizio della rivoluzione industriale si è cercato di equiparare il lavoro umano a quello di una macchina, la parte finale di un’equazione volta a minimizzare i costi e massimizzare i profitti. Non è un piano diabolico, ma tristemente umano. Se ciò non è avvenuto è per un secolo di lotte operaie, di riformismo (reale e spesso radicale) e, in parte, anche di imprenditori illuminati come Adriano Olivetti. Oggi come ieri, anche gli algoritmi che regolano i nuovi lavori sono frutto di una scelta umana. Oggi come ieri a ricordarcelo sono, ancora una volta, la vita e la carne dei lavoratori.

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