«Le cartelle cliniche di Messina Denaro? È il diritto di cronaca mal interpretato», il parere di Vitalba Azzollini

La giurista è stata la prima a sollevare la questione che va a toccare due sfere: quella delle norme sulla protezione dei dati sanitari e quella dei limiti del diritto di cronaca. L'intervista

17/01/2023 di Enzo Boldi

Che il giornalismo moderno sia poco incline – per non dire “allergico” – alle leggi e ai princìpi che regolamentano la professione è un dato di fatto che si palesa senza soluzione di continuità da anni. Quei paletti all’interno dei quali si muove quella creatura liquida che risponde al nome di “diritto di cronaca” vengono spesso abbattuti e superati da quella che sembra essere diventata un’esigenza vitale per la sussistenza e la sopravvivenza di un giornale (soprattutto quelli online): l’affannosa ricerca di click e visualizzazioni. E così, ogni giorno di più, vediamo testate che pubblicano video e dettagli che non aggiungono nulla alla stella cometa dell’informazione, ovvero all’essenzialità della notizia. L’ultimo caso, che Giornalettismo sta analizzando alla luce di quanto accaduto nel corso delle ultime ore, riguarda la pubblicazione dei dati sanitari (con tanto di fotografie e screenshot delle cartelle cliniche) di Matteo Messina Denaro. Dettagli che, oltre a non aggiungere nulla alla vicenda, sono oltrepassano la cornice legislativa. La prima a sollevare la questione è stata la giurista Vitalba Azzollini che, anche sui social, ha spiegato come questo diritto di “privacy” valga per tutti i cittadini. Anche per chi – secondo parte dell’opinione pubblica (che l’ha criticata e attaccata sui social senza conoscere i princìpi normativi) – si è macchiato di delitti efferati.

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La giurista, che collabora anche con numerose testate, ha provato a spiegare come la divulgazione dei dati sanitari di Matteo Messina Denaro rappresenti un illecito. Non si tratta, ovviamente, di un riferimento esclusivo al personaggio in questione in quanto boss latitante (fino a lunedì mattina) di Cosa Nostra. Parliamo di un casus belli da cui partire per sottolineare alcuni aspetti fondamentali in termini giurisprudenziali e giornalistici.

La legge, infatti, è uguale per tutti. Ogni cittadino ha eguali diritti di fronte alla legge e i suoi diritti fondamentali – come quello alla Salute, ma anche la tutela dei propri dati personali e sanitari – sono garantiti dalla Costituzione. Anche se si tratta di una persona condannata per efferati delitti. Perché l’Italia è uno Stato di diritto e tutto ciò non può essere cancellato dal sentiment comune. Per chiarire cosa è previsto dal sistema normativo italiano e dalle norme deontologiche che regolamentano la professione giornalistica, abbiamo intervistato proprio Vitalba Azzollini che ci ha fornito la cornice legislativa prima di entrare nel caso specifico di Matteo Messina Denaro.

Vitalba Azzollini sulla pubblicazione dei dati sanitari di Messina Denaro

«La materia è piuttosto complessa – ha detto la giurista a Giornalettismo – perché si snoda in due segmenti: da una parte c’è la struttura sanitaria che ha divulgato la cartella clinica; dall’altra ci sono i limiti del giornalista». Come spiegato in un precedente approfondimento su questa vicenda, un medico (o una persona che fa parte del personale sanitario) può procedere con la divulgazione di questi dati – che il GDPR inserisce nell’elenco delle “categorie particolari” – solo quando vi è un interesse pubblico (per esempio, con una pandemia). E questo primo aspetto è fondamentale per comprendere come questa filiera sia stata errata e contro la legge fin dal principio: «Chi, all’interno della clinica in cui si trovava Messina Denaro, ha divulgato o consegnato agli organi di stampa quella cartella clinica ha commesso un illecito – ha spiegato Vitalba Azzollini -. Perché le norme non prevedono la diffusione di quei dati e nonostante ciò, sono stati utilizzati e diffusi. È come se, per fare un esempio pratico, qualcuno decida di utilizzare dei beni derivanti da un reato».

Dunque, il primo passaggio di quella filiera era illecito e, di conseguenza, chi ha deciso di attingere a quella “fonte” – pubblicando un qualcosa che non ha aggiunto e non aggiunge nulla all’essenzialità della notizia – ha alimentato un sistema errato fin dall’origine: «Il GDPR europeo ha lasciato alle normative nazionali i regolamenti sul diritto di cronaca, pur avendo inserito nelle proprie direttive alcuni paletti – ha sottolineato la giurista -. In Italia, il Codice Privacy ha fornito alcune deroghe sulla prevalenza del diritto di cronaca, ma con un limite inalienabile: il rispetto della dignità della persona». Perché, come già spiegato in precedenza, la pubblicazione delle cartelle sanitarie del boss di Cosa Nostra rimasto latitante per 30 anni non ha aggiunto nulla alla notizia del suo arresto.

I giornalisti

Perché quando un giornalista pubblica una notizia, quest’ultima deve rispondere a tre criteri (che sono dei limiti, come ribadito più volte anche dalla Corte di Cassazione) inderogabili: verità, continenza (nell’esposizione, quindi un racconto senza cadere nella diffamazione) e pertinenza. A tutto ciò, come spiegato da Vitalba Azzollini a Giornalettismo, si aggiungono i princìpi di rispetto della dignità della persona e di essenzialità della notizia. E nel caso della condivisione delle cartelle cliniche con i dati sanitari sulle condizioni di salute di Matteo Messina Denaro, tutto ciò è stato violato: «Il giornalista dovrebbe rispettare queste norme e farsi delle domande prima di scrivere e pubblicare “notizie” del genere. Anche perché non era necessaria la pubblicazione di quei dettagli (protetti dalla privacy, ndr) visto che l’arresto è avvenuto in una clinica oncologica. Inoltre, c’è un altro aspetto da sottolineare: le forze dell’ordine che hanno parlato delle modalità dell’arresto e delle operazioni di indagine non hanno mai citato la parola “oncologico” e non hanno mai fatto alcun riferimento alla malattia».

Questo è un dato di fatto, così come l’assurda ricorsa alla pubblicazione di altre sfaccettature che nulla hanno a che vedere con l’essenzialità della notizia: «Alcune testate – ha detto la giurista a GTT – hanno pubblicato anche i tre centri vaccinali in cui Messina Denaro si è sottoposto all’immunizzazione anti-Covid». A cosa serviva? A nulla, se non a solleticare la possibilità di pubblicare uno o più articoli a corredo di quello in cui è stata data l’unica vera notizia: l’arresto del latitante boss di Cosa Nostra.

L’imbarbarimento della stampa e il caso Kaili

E il caso di Matteo Messina Denaro è solo la punta più recente di questo iceberg. Perché tra gli esempi citati da Vitalba Azzollini ce n’è anche uno molto recente che ha provocato l’intervento (l’ennesimo in questa direzione, per certi versi simile alla pubblicazione del video della tragedia del Mottarone) del Garante per la protezione dei dati personali: «Lo scorso 9 gennaio, l’Autorità ha diffidato tutte quelle testate che hanno pubblicato le immagini dell’incontro in carcere tra Eva Kaili, ex vicepresidente dell’Europarlamento, e la figlia minorenne». Il motivo è semplice e, per questo, attinente al caso di cui stiamo parlando: quel filmato – oltre a ritrarre una minore e renderla riconoscibile – non aggiunge nulla alla notizia. Non fa parte di quelle deroghe al diritto di cronaca. Due casi che appaiono distanti anni luce (soprattutto per tematica) ma che sono uniti da questo fil rouge fatto di cattiva interpretazione (per usare un eufemismo) del diritto di cronaca.

Perché accade tutto questo? La risposta di Vitalba Azzollini è laconica e molto attinente alla realtà attuale: «Il diritto di cronaca deve essere bilanciato tra i principi vincolati dalle Carte fondamentali che regolamentano la professione giornalista. Ma non tutti lo fanno. Si è varcata la soglia e si è arrivati al paradigma del diritto di cronaca assoluto, quello che va oltre i paletti imposti dalla legge e dalle regole. Un atteggiamento iniziato da quando i giornali – e il mondo dell’editoria, più in generale – sono in crisi. Si cercano click e visualizzazioni andando oltre i limiti. Tutto ciò ha anche delle cause che possono non apparire evidenti, ma sono fondamentali per capire i motivi: da una parte c’è il Garante per la Privacy che è sempre molto attivo, dall’altra c’è l’assenza di una tutela nei confronti di chi vede violati i propri diritti alla protezione dei dati personali (sensibili e sanitari). Chi ha le possibilità, infatti, è in grado di denunciare e querelare. Chi, invece, è coinvolto in casi più spinosi e accuse più gravi non può far valere la tutela del singolo. Per ovvi motivi: la sua attenzione è concentrato sul difendersi da accuse addebiti molto più pesanti». Per questo motivo, tutte queste violazioni da parte della stampa passano impunemente dimenticando un principio sottolineato dalla giurista: «Anche il più efferato criminale mafioso ha i suoi diritti. Da quello alla difesa dei suoi dati sanitari a quello, per esempio, alle cure». Lo dicono le basi su cui si fonda un Paese democratico. Come l’Italia.

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