Meta contesta all’Europa la “tassa di vigilanza” del DSA

La holding di Zuckerberg, così come TikTok, ritiene ingiusto che alcune altre grandi piattaforme siano esentate dal versamento di questa imposta "a causa" delle perdite registrate

15/02/2024 di Enzo Boldi

Google 22,1 milioni di euro, Meta 11 milioni di euro, TikTok 3,9 milioni di euro. X e Amazon, invece, non hanno versato nulla. Questo è il conto del primo pagamento che i giganti del web hanno dovuto versare nelle casse dell’Unione Europea per la cosiddetta “tassa di vigilanza“, introdotta ai sensi del Digital Service Act. Cifre che servono a coprire le spese, per l’appunto, di vigilanza, per valutare il corretto comportamento delle piattaforme (identificate come VLOP – Very Large Online Platforms) dalla Commissione UE all’interno del Digital Service Act.

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Subito dopo il primo versamento, che andrà a coprire le spese di monitoraggio per il 2024, Meta ha avviato la sua contestazione. E lo stesso percorso lo sta intraprendendo anche TikTok, seppur da due punti di vista leggermente differenti. E, come riporta Bloomberg, la holding di Mark Zuckerberg è pronta a presentare un ricorso al Tribunale europeo. Per quale motivo? Non ritiene ingiusta questa tassazione – la cosiddetta supervisory fee -, ma ritiene ingiusto che molte piattaforme (nonostante siano state inserite all’interno dell’elenco delle VLOP) siano state esentate dal pagamento di questa imposta.

Tassa di Vigilanza, chi l’ha pagata

Prima di entrare nel merito della contestazione di Meta, facciamo un piccolo passo indietro. L’articolo 43 del Digital Service Act va a definire il perimetro di questo “Contributo per le attività di vigilanza”. E fornisce anche l’entità, percentuale, di questa tassa che pende sul capo delle 17 VLOP:

«L’importo complessivo del contributo annuale per le attività di vigilanza a carico di un dato fornitore di una piattaforma online di dimensioni molto grandi o di un motore di ricerca di dimensioni molto grandi non supera in ogni caso lo 0,05 % del suo reddito netto annuo a livello mondiale nell’esercizio finanziario precedente». 

Dunque, ogni piattaforma (tra le 17, a cui si aggiungono i due VLOSE) deve versare una piccolissima quota (lo 0,05%) del reddito annuo a livello mondiale. Tutte, ma non proprio tutte. Perché questo vale esclusivamente per quelle aziende che, nel corso dell’anno precedente, hanno registrato delle perdite. Tradotto in numeri, il 31 dicembre del 2023 sono stati pagati i seguenti contributi:

  • Google 22,1 milioni di euro
  • Meta 11 milioni di euro
  • TikTok 3,9 milioni di euro
  • Apple 3,1 milioni di euro
  • Bing 1,8 milioni di euro
  • Booking 1,5 milioni di euro
  • AliExpress 1,1 milioni di euro
  • LinkedIn 897.700 euro
  • Zalando, 8.400 euro

Le altre (Amazon, X, Pinterest, Snapchat e Wikipedia) non hanno dovuto versare un centesimo per quel che riguarda la tassa di vigilanza ai sensi del DSA.

La contestazione di Meta

E da qui nasce la contestazione mossa da Meta e la minaccia di un ricorso presso il Tribunale dell’Unione Europea. Un portavoce della Holding di Mark Zuckerberg, ha infatti dichiarato:

«Non siamo d’accordo con la metodologia utilizzata per calcolare queste commissioni. Attualmente, le aziende in perdita non devono pagare, anche se hanno un ampio bacino di utenti o rappresentano un maggior carico di lavoro per la regolamentazione, il che significa che alcune aziende non pagano nulla, lasciando ad altre l’onere di coprire una parte sproporzionata del totale». 

 

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