Cocaine – La vera storia di White Boy Rick | Recensione
11/03/2019 di Redazione
Cocaine – La vera storia di White Boy Rick è uno di quei film che se non ti dicessero che è tutto vero, stenteresti a crederlo. Trama semplice semplice: un adolescente, figlio di uno sgangherato trafficante d’armi di un sobborgo di Detroit, diventa un informatore del FBI e da loro trasformato in spacciatore per incastrarne altri. Non finirà bene. Per lui.
White Boy Rick era il semplice titolo originale, calzante per raccontare la storia di un bianco in un ghetto nero di Detroit degli anni Ottanta. Una mosca bianca, in tutto e per tutto, in una città che una volta era il cuore industriale degli Stati Uniti, che nel corso degli anni è stata quella maggiormente dilaniata dalle crisi economiche che si sono succedute. Non a caso, Flint dista appena cento chilometri da Detroit, il paese dove Michael Moore è nato e che utilizza nei suoi documentari come laboratorio di tutti i mali d’America.
E non a torto, perché quello spicchio di terra incuba ormai da molti anni il malessere del paese. I democratici hanno perso il 7% dal 2012 al 2016, consegnando per un pugno di voti lo stato, e i suoi relativi grandi elettori, a Donald Trump. E come nel Michigan lo stesso è successo in molti altri stati in cui il livello di scolarizzazione è basso e la disoccupazione alta. Un processo che parte da lontano, proprio dal decennio in cui opera Richard Wershe Jr., vittima, paradossale ma vero, della lotta alla droga di cui si fece testimonial Nancy Reagan, con un discorso alla nazione in compagnia del coniuge presidente che fece la storia del narcotraffico.
White Boy Rick è una vittima del sistema, e come lui ce ne sono state molte altre, fino ai giorni nostri. Ed è a causa di questo scriteriato sfruttamento dei cittadini da parte dello stato che populismo e incompetenza diventano qualità da condottiero. Lo stesso è accaduto da noi, nel corso di un po’ tutta la storia repubblicana, con le conseguenze che oggi vediamo.
Cocaine – La vera storia di White Boy Rick è un racconto esemplare, messo in scena con metodo e ordine da Yann Demange, regista nato francese ma cresciuto londinese che ama cercare storie di giovinezza tradita. Lo aveva fatto con il suo fulminante esordio ’71, raccontando l’Irlanda del Nord all’alba dei Troubles. Cinematograficamente c’è un passo indietro, ma il discorso che manda avanti, quello delle generazioni perdute sull’altare di un potere arrogante, è molto interessante.
Per il resto, Richie Merritt è bravissimo nei panni del giovane Rick, e Matthew McConaughey propone una buona versione di Matthew McConaughey. Ma al giorno d’oggi, con quest’overdose di film e serie tv, queste informazioni sono decisamente la cosa meno pregnante. Quello che conta è raccontare, per non dimenticare.